La grandezza di Anton Cechov, drammaturgo, si trova nel punto più fragile della sua scrittura: l’intelaiatura teatrale dei suoi personaggi. I fantocci che Cechov crea per il palcoscenico non si reggono mai sulla consistenza dei fatti, ma esclusivamente sull’inconsistenza dei sentimenti. Le Tre sorelle, Mascia, Irina e Olga, sono l’esemplare modello di questa teoria. La loro tangibilità non va più in là di un velo che riveste un’anima. E tutt’intorno c’è sempre una nebbia che protegge l’unione dei loro drammi che è un unico dramma, potentissimo, perché è il dramma di tutti noi. L’assurda ricerca della felicità.
La compagnia Muta Imago cura un interessante allestimento dell’opera cechoviana, adattata sia scenicamente che drammaturgicamente, estrapolando del tutto le tre sorelle dal contesto in cui le ha calate l’autore. L’idea della messa in scena, lo si intuisce bene, nasce da un profondo studio dell’anima dei personaggi che Riccardo Fazi e Claudia Sorace sono riusciti mettere a nudo per riproporla vestita di un velo appena differente dall’originale. Mascia, Irina e Olga – quelle descritte da Cechov – vivono in una città di provincia e il loro desiderio è quello di ritornare a Mosca, perché lì c’è la vita che lasciarono quand’erano poco più che bambine, e la commedia si apre e si chiude con la stessa identica speranza. Nella versione proposta da Muta Imago, al Teatro India, invece, in un ring delimitato dal nulla e in un tempo che assomiglia all’eternità, non esiste speranza, ma soltanto il suono delle parole svuotate dell’energia del desiderio. La loro autentica voce arriva dall’esterno, dagli effetti sonori creati appositamente per la loro agonia. Resta, infatti, evidente, davanti agli occhi degli spettatori, ferma e decisa l’angoscia della noia. «Se ne sono andati tutti», così comincia il testo rivisitato da Fazi: ma in questo «tutti» non sono intesi gli invitati, gli amici, i difficili amori, ma le aspirazioni, le aspettative, quelle illusioni che sono l’intelaiatura degli ectoplasmi di Mascia, di Irina e di Olga. Così vien fuori forte e drammatica l’unica ragione della loro esistenza: «La felicità non esiste» e non può essere nemmeno una speranza, ma soltanto una ineluttabile assenza. È come se in questo allestimento la non-storia scritta da Cechov cominciasse, come in un sogno, dal finale, da quando ormai è chiaro che, malgrado le aspettative, «la vita resterà sempre la stessa».
I germi del paradiso terrestre che le sorelle seminano ogni qualvolta pronunciano il nome della città di Mosca, attraverso l’intensa recitazione di Federica Dordei, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli diventano chiodi che penetrano nel petto di ciascuna, dove «dentro c’è l’inferno», le cui fiamme brulicano come fosse un incendio continuo. E quando il fuoco divampa sulla Kirsanova, loro se lo sentono bruciare addosso.
Per Cechov, i personaggi che vanno a far visita alle tre sorelle rappresentano gli esponenti della noia, qui, quella stessa noia, è già insita nelle protagoniste e mostrarla in divisa militare (come vorrebbe l’autore) sarebbe superfluo. D’altronde, lo spiega bene Moravia, la noia è una insufficienza dell’anima, una inadeguatezza all’evidenza, una scarsità al senso della realtà. E il sentimento dei tre ectoplasmi nasce proprio dall’incapacità di vivere, qualunque cosa accada intorno a loro. Nulla potrebbe restituir loro l’interesse alla vita, neanche l’angoscia della morte.
La regia di Claudia Sorace è in perfetta sintonia con l’adattamento: tanto che ogni riferimento al testo di Cechov sembrerebbe puramente casuale (anche se non lo è). Dico, e mi pare il miglior complimento, che la messinscena di questo spettacolo è tanto diversa dall’idea originale quanto autonoma nella sua rappresentazione. Allora – mi domando – perché scrivere in locandina «Tre sorelle di Anton Cechov» e non «da»? Lo spettacolo di Sorace e Fazi, illuminato ad arte da Maria Elena Fusacchia (l’effetto del triangolo annebbiato avrebbe meritato un applauso a scena aperta) persegue con costanza la contemporaneità delle angosce, delle paure che ci perseguitano ogni giorno. Nonostante l’assenza degli altri personaggi, infatti, s’è insistito sul richiamo di Versinin alla necessità di lavorare, un bisogno inteso come dovere, come unica possibilità per poter sopravvivere alla noia. Tuttavia si evince, al contrario di quel che suggerisce Cechov, anche il rovescio della medaglia: cioè che lavorare, come noi oggi intendiamo il lavoro, oltre che una necessità, diventa l’abitudine che alimenta in noi la noia. Lì dentro, infatti, troviamo l’inferno, pur continuando a dibatterci nell’assurda ricerca della felicità.
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Tre sorelle da Anton Cechov, adattamento scenico e drammaturgico a cura di Muta Imago. Con Federica Dordei, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli. Musiche originali eseguite dal vivo da Lorenzo Tomio. Disegno luci Maria Elena Fusacchia. Drammaturgia e suono, Riccardo Fazi. Regia, Claudia Sorace. Teatro India, fino 14 maggio
Foto in evidenza: Tre sorelle ©Luigi Angelucci