Per molti è considerata la commedia perfetta. Il debutto alla Sala Umberto, firmato da Geppy Gleijeses, ha messo in luce un cast brillante. Magnifica l’interpretazione di Lucia Poli
Confrontarsi con certi capolavori, si sa, non è mai impresa facile. Si rischia di banalizzarli o di non riuscire a conservare quella forza che li ha resi immortali, impressi nella Storia sine die. Se però la sfida di misurarsi con un testo imponente viene colta da un veterano come Geppy Gleijeses e l’opera si chiama L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde, allora le cose cambiano. Dire che il regista napoletano conoscesse già quella che lui stesso definisce “La commedia perfetta”, sarebbe usare un eufemismo, dal momento che esattamente venticinque anni Mario Missiroli lo chiamò ad interpretare il personaggio di Jack Worthing. Lo stesso ruolo che mantenne nella riedizione del 2013; allora, esattamente come oggi, ne curò pure la regia.

Giorgio Lupano e Luigi Tabita
Le aspettative, comprensibilmente alte, non sono state però disattese: alla Sala Umberto, The importance of being Earnest restituisce al pubblico tutta la brillante ironia e la grazia che hanno reso questa commedia una pietra miliare della drammaturgia, ma lo fa con una sensibilità contemporanea, che invita a riflettere sull’identità e sull’apparenza anche nel nostro tempo. La storia, come sempre, ruota intorno a Jack e Algernon, due uomini che per motivi diversi fingono di chiamarsi “Ernest” per ottenere ciò che desiderano — l’amore, la rispettabilità, la considerazione sociale. Da qui nasce una serie di equivoci irresistibili, costruiti con il ritmo serrato e la comicità raffinata tipici di Wilde. La farsa si trasforma presto in una satira pungente della società che giudica più dal nome e dall’immagine che dalla sostanza. Purtroppo, a causa della traduzione letterale del titolo, ma è una limitazione puramente linguistica e risaputa, per noi italiani non è possibile cogliere il gioco di parole tra Ernest (nome proprio di persona) ed Earnest (aggettivo che ha lo stesso suono e che significa serio, affidabile, onesto, ma anche capace nel guadagno) su cui si basa il titolo inglese, e consequenzialmente molte battute all’interno del testo. Per ovviare al problema, alcuni traduttori hanno sostituito “Ernesto” con “Onesto” oppure, nel tentativo di ricreare l’effetto analogo, “Franco”. La questione di quale versione sia da preferire rimane tuttora aperta.
La regia di Geppy Gleijeses è fedele al testo, ma non antiquata: riesce a conservare l’eleganza vittoriana pur rendendo i dialoghi freschi, vivaci, quasi cinematografici nel ritmo. Malgrado l’emozione iniziale degli attori sia tangibile nella primissima scena, poche battute dopo tutto inizia a scorrere con naturalezza, senza mai appesantirsi, e il pubblico si trova immerso in un gioco teatrale di equivoci, risate e riflessioni. Il cast è uno dei punti di forza. Lucia Poli nei panni di Lady Bracknell domina la scena: è ironica, tagliente, perfettamente calata nel ruolo della zia autoritaria e mondana, simbolo del perbenismo vittoriano. Ci ha parlato del suo personaggio in questa intervista. Accanto a lei, gli interpreti maschili danno vita a personaggi credibili, brillanti ma mai caricaturali. Fondamentale è il ritmo, con un rimpallo serrato nei dialoghi tra Giorgio Lupano nel ruolo di Jack alias Ernest (il mentitore seriale che spesso si impiglia nella matassa delle sue stesse bugie), e un divertente e divertito Luigi Tabita, nel personaggio di Algernon Moncrieff. Ma è tutta la compagnia a mostrare un perfetto affiatamento e tempi comici impeccabili. Specie se si considera la struttura scelta per questa riedizione, in soli due atti, la metà di quelli previsti dal testo originale -anche se la prima versione rappresentata nel 1895 prevedeva tre atti-. Sta di fatto che il flusso della drammaturgia e l’interpretazione rimangono trascinanti anche con la classica pausa singola e solo un paio di cambi scena.
Anche la scenografia contribuisce alla riuscita: elegante, luminosa, ricca di dettagli che evocano la Londra di fine Ottocento senza cadere nel museo teatrale. I costumi di Chiara Donato esaltano il gusto estetico del periodo e danno colore ai personaggi, sottolineando il contrasto fra ciò che appaiono e ciò che realmente sono. L’intero spettacolo, pur restando fedele all’ambientazione originale, parla chiaramente al pubblico di oggi. Restano immutate le domande che Wilde poneva ai suoi spettatori già un secolo e mezzo fa: quanto contano i rapporti umani quando quelli economici minacciano di schiacciarli? E la spiritualità, in un mondo in cui arricchirsi sembra l’unico credo? Chi è veramente più cinico, il leggero Algernon, consacrato al bumburismo (l’arte del bidonare con stile, scegliendo sempre il divertimento) oppure la rispettabile Lady Bracknell, che di fronte al denaro sonante riesce a cambiare idea nel tempo che impiega una zolletta di zucchero a cadere nella sua decoratissima tazza di tè? Dietro le risate, emerge un’altra riflessione, amara ma attuale: quanto della nostra identità è autentico e quanto è costruito per piacere agli altri? In tempi in cui l’immagine e la percezione pubblica contano tanto — dai social alla vita quotidiana — L’importanza di chiamarsi Ernesto sembra quasi scritta per noi.

Luigi Tabita e Lucia Poli
Tanto attesa prima quanto imperdibile ora, questa versione diretta da Gleijeses è una commedia elegante, intelligente e godibile, che diverte ma non banalizza, portando in scena uno dei testi più brillanti della letteratura teatrale con rispetto e modernità. Un classico senza tempo, servito con leggerezza e cura. Un po’come il tè delle cinque, nel servizio buono, in un piovoso pomeriggio inglese del 1894.
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L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde – Traduzione Masolino D’Amico – Regia di Geppy Gleijeses – Con Lucia Poli, Giorgio Lupano, Maria Alberta Navello, Luigi Tabita, Giulia Paoletti, Bruno Crucitti, Gloria Sapio, Riccardo Feola – Costumi: Chiara Donato – Scene: Roberto Crea – Luci: Luigi Ascione – Sala Umberto di Roma dal 21 ottobre al 2 novembre 2025





