Tormenti isterici e tramonto della servitù

La sagra dei monologhi, tra assurdo dissolvenza e rinascita.

Un coacervo di interessanti contraddizioni, tra metafore e modernizzazione, questo Giardino dei ciliegi di Leonardo Lidi (Roma, 3-8 dicembre 2024), terza e ultima puntata della trilogia dedicata dal regista a Cechov, in successione Il gabbiano – Zio Vanja – Il giardino dei ciliegi.

Se brulica infatti di accenti farseschi, e se la malinconia è spesso neutralizzata da una assurda frenesia vitalistica, da una cocainica ansia di rimozione, e il tramonto

degli anziani convive con lansia ottimistica e speranzosa di rinascita dei giovani, nondimeno sotto la farsa scorre un inquietante filone mortuario, che apre a chiude a cornice, con la sua morsa, lepifania scenica, il suo teatro di vita effimero.

I segni di apertura del resto sono chiari, anche se poi il vaudeville multicolore a seguire sembra vanificarli, dissolverli.

Vediamoli.

Un pavimento di linoleum simil marmo, mortuario, e laterali e fondale inguainati da alti tendaggi di plastica nera, resi lividi dalle luci al neon. Sparse a terra, come cadaveri, come spoglie e icone del disordine, sedie bianche in plastica, da giardino.

Un moderno non luogo, mortuario, anonimo, ben diverso dalla probabile eleganza della tenuta – sia pure in decadenza – del testo originale.

Un ambiente degradato e claustrofobico, anche se in maniera diversa dallo stretto corridoio architettato – sempre da Nicolas Bovey – per la seconda tappa della trilogia cechoviana di Lidi, Zio Vanja.

E sotto un soffitto tappezzato da una selva di quadranti al neon, che si alza con fragore, obliquo, come a minacciare un cielo di tragedia, muto in scena, come un relitto beckettiano, ecco comparire, immobile su una sedia a rotelle, lantico servitore, Firs.

E‘ il testimone muto già presente come stratagemma nello Zio Vanja, con la funzione di derealizzare tragicomicamente il vissuto scenico, ed è una invenzione fondamentale, che altera il testo cechoviano, in parte. In Cechov infatti il servitore è elegante e attivo nella sua funzione. Averlo mummificato quindi qui fa da segno premonitore della morte del vecchio mondo – Ljuba, il suo passato, la ricchezza, il giardino, la signoria sui servitori – parabola che ha il suo lato attivo in Lopachin, che con la sua ricchezza e con lacquisto del giardino dei ciliegi (per farne villette), oltre che prefigurare il moderno capitalismo, riscatta anche le proprie origini, quando i suoi avi lì servivano, e non erano neanche ammessi in cucina.

Firs, il servo muto di scena che poi scende ancora di livello, da testimone a mobile di scena, come quando le due figlie di Ljuba, mentre chiacchierano tra loro, vi si siedono sopra, come se lui non esistesse, e fosse un oggetto di un vecchio mondo per loro ormai invisibile e trasparente, senza dignità.

Così sarà con stupore che lo sentiremo parlare, quando, seguendo il testo, Lidi gli ridà parola. Una prima volta quando ricorda larte ormai dimenticata della conservazione delle ciliegie, e nel finale quando – ora segno parallelo a quello di apertura – chiude i giochi, dopo la partenza di tutti, e recita queste meste parole

        Sono partiti. Si sono scordati di me. Non fa niente […] La vita è passata,

        è come se non l’avessi vissuta. Non ho più forze. E le forze che avevo? 

       Niente più… tutte se ne sono andate. Va, va, deficiente

Il segno mortuario non derealizza le parole di speranza ed ottimismo dei giovani, ma è pur vero che vi getta lombra triste della caducità. 

Come noi, voi? 

Non a caso Ljuba, nel monologo daddio identifica il giardino con la sua giovinezza. Storicamente muore il vecchio mondo, e dietro allorgoglio capitalistico da risalito di Lopachin echeggia il mondo prossimo venturo degli operai e della rivoluzione (il testo è del 1904). Ma muore anche il mondo delle speranze che ogni giovane incarna, muore lillusione stessa del vivere. E la vita come la recita in teatro, è il soffio di un istante.

Hanno dimenticato Firs? I giovani dimenticano il vecchio mondo?

Out out brief candle. Come in Macbeth. 

La vita?

Un attore che si agita e pavoneggia in scena, per un istante, e poi non se ne sa più nulla.

E‘ questo anche il senso del disarredo scenico che attualizza il post vendita e i preparativi per la partenza. Qui la metafora teatro-vita diventa palese e efficacemente suggestiva.

Ora tutto diventa a giorno, a luce piatta. Il soffitto è riatterrato a pedana, e vengono smontate le tende nere del fondale e dei laterali, buttate sulla pedana come sacchi della spazzatura. La festa (scena precedente) è finita. Compare il disordine del backstage, e lo spazio è un grande buco. 

Così le ultime interazioni sembrano svolgersi fuori scena, nel tramonto della recita.

Una recita di vita  a cui continuamente irride il tono da farsa isterica, cocainica, e da vaudeville, che innerva la recitazione di tutti, e dove spesso lintervento di uno è interruzione e smontaggio di quanto agito e vissuto dallaltro.

Perché sull’interazione, sulla relazione, anche quando sembrano esserci, prevale un monologare nevrotico, autoriferito, impermeabile al vero ascolto dell’altro.

Così Lopachin – un abile Mario Pirello tutto in cantilena – che straborda di ottimismo propositivo, e forse segretamente ama Ljuba, e non la figlia che lei vorrebbe dargli in sposa, ma che in realtà canta in continuo assolo la gioia della rivalsa.

E così si raccontano gli altri a turno.

Così Ljuba, con gli amori fallimentari, il figlio morto, la nostalgia che si aggrappa al simbolo giardino (da non vendere), rimuovendo la realtà dei debiti. Vede se stessa, e sugli altri obietta o dirige. Il giovane studente da catechizzare su vita e amore, la figlia da maritare, la sorella che vede complice della propria nostalgia, ma che pensa ad altro. Manipola, ma non ascolta.

Così le due figlie, prese dai rispettivi sogni di amore, evasione, rinascita.

Così il contabile, Semion Epichodov – un clownesco e gestualmente epilettico Massimiliano Speziani – che come un disco rotto bypassa gestualmente i continui rifiuti amorosi di Dunja con la propria surrealtà fisica.

Ora è un tip tap in avanscena, per esorcizzare mimare limbarazzo delle scarpe che scricchiolano. Ora è il mimo di una intenzione suicidaria che si degrada nel gesto rassegnatamente autocastratorio di uno spararsi sui genitali, mano nel costume.

Un suicidio da spiaggia, come da spiaggia, o da festa allamericana con cappellini colorati, sono molte delle interazioni, sulla pedana in cui si trasforma il soffitto scendendo, a mimare ora ambiente interno ora, inclinato, una spiaggia.

La spiaggia. La festa.

Sono modernizzazioni, alleggerimenti? Il ritratto di una élite superficiale?

Non credo. Direi che sono il luogo della rimozione.

Perché in realtà tutto è un frenetico alternarsi convulso di interazioni, a coppie parallele, o per giustapposizione ed isolamento in una coralità di gruppo.

Di interazioni dove il monologo, il non ascolto sono lapparenza di una rimozione di chi, ascoltando, non regge la ferita. Rimuove.

E qua e là lo scudo salta, e a tratti il dolore emerge. Per esempio quando Ljuba vuole strozzare lo studente, che le ricorda il figlio morta, Griša, di cui era precettore. 

E non è un caso che poi lo accusi di moralismo quando sembra disapprovare il residuo di amore di lei per lex amante.

Così ogni tanto irrompe lesterno, la realtà, nel teatro della vita, nella sua teca di cristallo, con un va e vieni degli attori da e verso la scalinata della platea. La platea: il da dove vieni e dove vai, dello sguardo e del pensiero. Il passato ed il futuro all’orizzonte.

Ma dura poco.

Prevale la spezzatura da varietà o cabaret, dove l’esterno rende l’interno puro spettacolo.

Così all’inizio Lopachin se ne sale in platea, cantando Tornerà di Lauzi rendendo un varietà l’attesa di Ljuba. E così la governante, con guizzi da locale notturno, in sgargiante camicia gialla e calzamaglia, diventa una trans, che cantando colora intermezzi di transizione.

Il cabaret. 

L’espressionismo barocco di un tutto pieno che esorcizza il vuoto pieno del silenzio e dell’inquietudine.

Pochi i silenzi. Le pause.

O si monologa nel vuoto di altri che silenti fanno altro, o più spesso azioni e parole si accavallano, in frenesie affollate di gruppo. Simbolo di un tutto pieno nella coscienza del vuoto, dell’agitarsi di un’ansia nevrotica a mascherare il silenzio, il rumore interiore.

Simbolo e acme di questo sono la logorrea veloce del contabile, Semion, e le cantilene pedagogiche di Lopachin.

Pochi i silenzi, e dunque risaltano come un climax la festa finale, e il silenzio che la gela. 

Tutti attendono. L’asta… Venduto? Non venduto? 

Ma ballano e rimuovono. 

Come in Beckett: inquietudini, attesa, incombere della fine. La mannaia della morte.

Poi arriva Lopachin che annuncia entusiasta che lo ha acquistato lui.

E’ il gelo. Stop motion e lungo silenzio. Tutti sono pietrificati.

E da qui lo scivolo al finale. Gli addii, i vissuti divergenti. La scena vuota.

E il servo abbandonato, Firs, con il suo triste monologo.

Non c’è un vero calo del sipario, come non c’è separazione tra noi e la scena, tra vita e teatro.

Il sipario è lo spegnersi delle luci. Out out brief candle…

Ma precede un micro sipario, un malinconico atto di dissolvenza. 

Firs accompagna il suo monologo aprendo lentamente tra le mani, fino a tenerlo appeso, un fazzoletto bianco.

Poi lentamente lo fa salire, come un sipario appunto, fino a coprire il volto.

Non finisce la vita, ma noi sì.

Breve pausa. Poi il pubblico risponde caloroso.

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Il giardino dei ciliegi – Progetto Cechov, terza tappa – di Anton Čechov – traduzione Fausto Malcovati  – regia Leonardo Lidi – con  Giordano Agrusta (Boris Borisovic Simeonov-Piscik), Maurizio Cardillo (Charlotta Ivanovna), Alfonso De Vreese (Jasa), Ilaria Falini (Varja, sua figlia adottiva), Sara Gedeone (Anja, sua figlia), Christian La Rosa (Peter Sergeevic Trofimov), Angela Malfitano (Dunja), Francesca Mazza (Ljubov’ Andreevna), Orietta Notari (Lenja Andreevna, sorella di Ljubov’), Mario Pirrello (Ermolaj Alekseevic Lopachin), Tino Rossi (Firs), Massimiliano Speziani (Semen Pantelevic Epichodov), Giuliana Vigogna (Anja, sua figlia) – scene e luci Nicolas Bovey – costumi Aurora Damanti – suono Franco Visioli – assistente alla regia Alba Porto – produzione Teatro Stabile dell’Umbria, in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi – Teatro Vascello dal 3 all’8 dicembre 2024

Teatro Roma
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