This and more: la traccia umana negli scatti di Hervé Guibert

L’immagine fotografica di Hervé Guibert non è il risultato di una cattura; i suoi fotogrammi non vogliono documentare il mondo né strapparne le immagini ma rispetto al mondo si pongono come strumenti di connessione, sono trait d’union che indagano il soggetto e con lui intendono stabilire un’interazione, una vicinanza emotiva.

Prima mostra del fotografo parigino in un’istituzione italiana, This and more, curata da Anthony Huberman e ospitata fino al 21 maggio presso Il Museo per l’Immaginazione PreventivaMACRO di Roma, affronta un aspetto meno noto dell’approccio al ritratto proprio dell’artista che, definendosi in primo luogo scrittore e critico, sceglie la fotografia come mezzo d’indagine nella ricerca delle difficili relazioni che intercorrono tra verità e realtà.

L’umano fantasma: presenza senza l’immagine

Se interrogativo trasversale nella ricerca espressiva di Guibert nasce da ciò che una fotografia può o non può contenere, se il suo principale mezzo di indagine è quello del ritratto, in questa sede la figura umana non compare nella sua completezza. L’umano è invece traccia, presenza fantasmatica che c’è ma non si vede.

Una traiettoria che procede sull’insolito, che dimostra quanto non sia necessario raffigurare l’umano per esprimere l’umano a partire dalla decisiva premessa per cui- afferma l’artista- la cosa più importante di un’immagine è che sia fedele alla memoria dell’emozione.

Esemplificativo a questo proposito Autoportrait, porte vitréè- 1986 strutturata nella sua composizione come elogio al piacere dell’intravisto, alla sua indetermintezza: soli elementi visibili nell’autoritratto dell’artista sono la spalla e parte dei capelli, riflessi sulla superficie di uno specchio; quale sia invece il suo volto o il sguardo rimane ignoto. A tal fine un mirato jeu de miroir che permette all’osservatore di scorgere parte di un altro spazio, di un’altra stanza, al di là della porta semiaperta. Una traiettoria che mostra l’accenno e il suo mistero.

Ancora un’altra declinazione in Deux pieds sur banquette- 1981 e in Plante sèchesenza data, dove la presenza umana è espressa in un articolato gioco di sineddoche. La parte per il tutto; la mano, o il piede, per l’uomo nella sua interezza. Così, nel particolare lo spettatore scorge l‘antropomorfo, ancora una volta affidato alla logica dell’accenno.

L’indeterminatezza dell’accennato può far paura

Una connotazione del tutto particolare nell’utilizzo di tale meccanismo è riscontrabile in Vertiges, senza data dove l’elemento intravisto si afferma come presenza fantasmatica, portatrice di inquietudine. Un’evidente angoscia scaturisce infatti dalla figura indistinta che dal di fuori sembra spiare l’interno.

La spessa fattura della porta a vetri ne deforma la fisionomia, eppure il suo sguardo giunge diretto all’osservatore che a sua volta è portato a immedesimarsi nella composizione visiva, ad entrarvi, a provare paura.

Allo stesso modo, ciò che colpisce è la costruzione di una precisa traiettoria visiva che induce- o ancor meglio costringe- colui che guarda a un duplice movimento dell’occhio: l’occhio è rapito dalla presenza spettrale, subito dopo spaventato si chiede: cosa starà guardando? Non riesce però a trarre soddisfazione dalla visione, poiché quello che vede è solo un fotogramma: unici elementi esposti alla visione sono la porta semiaperta e la camicia appoggiata al suo pomello.

La luce che svela ciò che il fotogramma non comprende

Lo scatto elegge una parte di realtà e la raffigura, imprimendola sulla pellicola ma- allo stesso tempo- escludendo tutto ciò che vi è oltre l’immagine. Così come l’immagine di Guibert accenna ciò che è presente, parallelamente intende mostrare uno scorcio di ciò che assente: a tal fine utilizza la luce.

È possibile notarlo osservando Emmènagement rue du Moulin- vert- 1981 in cui, nel ricambiare lo sguardo della donna dipinta su una tela, lo spettatore si sente inspiegabilmente interpellato, esortato a decifrare l’enigmaticità di quello sguardo.

Eppure il suo percorso visivo è interrotto, quanto attratto, dalla striscia di luce proveniente da sinistra, suggeritrice di un’altro spazio, luogo presente e invisibile sottratto alla visione.

La scia luminosa rende nota dunque la presenza dell’altrove. La scelta di lasciarlo fuori campo, spinge a interrogarsi sulla sua natura aumentandone il mistero.

Medesimo, l’utilizzo della luce in Le depart-1982: ciò che vediamo è solo una stanza spoglia, un letto, un paio di scarpe lise, dimenticate; ma sappiamo che vi è una finestra, e che è una finestra a inglesina. Conosciamo il particolare dell’oggetto senza che l’oggetto compaia ai nostri occhi, lo conosciamo solo grazie alla luce, strumento eletto nel rivelare ciò che oltrepassa il limite dell’occhio.

Tutte realizzate grazie alla stampa ai sali d’argento, le fotografie esposte in This and More rispondono-alla tesi presentata nel libro L’image fantôme– dove il affirme des choses impossibles et il raconte sa vie, ma soprattutto sostiene la necessità di offrire un luogo emozionale allo spazio latente, non riprodotto, non catturato, o volutamente affidato all’immaginazione.