The Palace: un Polanski triste ma divertente!

Presentato fuori concorso alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e dal 28 settembre nelle sale, l’ultimo film di Roman Polanski porta sullo schermo ipocrisia e opulenza con irriverenza ed ironia.

31 dicembre 1999, siamo al Palace hotel di Gstaad in Svizzera, una lussuosa struttura alberghiera d’élite dove ogni anno si reca la più alta società per trascorrere l’ultimo dell’anno. I consueti preparativi dello staff sono meticolosamente coordinati dal direttore Hansueli (Oliver Masucci) e dal suo subordinato Tonino (Fortunato Cerlino).

La ricca clientela dell’albergo non tarda ad arrivare così come le sue variegate stravaganze. Mr. Crush (Mickey Rourke), un iperabbronzato uomo d’affari americano alle prese con loschi accordi; il Dottor Lima (Joaquim de Almeida), un rinomato chirurgo plastico; la marchesa Constance de La Valle (Fanny Ardant), una nobildonna francese di mezza età, decisamente arrappata e in compagnia del suo inseparabile cagnolino Toby; Mr. Marinetti (Luca Barbareschi) un ex pornodivo a tutti noto con il nome d’arte Bongo; ed Arthur William Dallas III (John Cleese), un miliardario ultranovantenne con la moglie obesa ventiduenne Magnolia (Bronwyn James). 

C’è chi teme la fine del mondo a causa del Millennium Bug che manderà in tilt i computer del globo; chi invece pensa di approfittarne; un gruppo di non chiari ricchi russi che esultano per l’improvvisa salita al potere di Vladimir Putin come Primo Ministro; ricche anziane aristocratiche rifinite di botox che non sanno rinunciare ad un ultimo tocco di bisturi; altri ancora che si fanno letteralmente spedire un pinguino vivo e vegeto e si stupiscono che questo non sia addomesticato.

Luca Barbareschi e Oliver Masucci in una scena del film

Le premesse per un cinepanettone grottesco internazionale ci sono tutte e di fatti lo è; quel che certo è che nei suoi 100 minuti di durata The Palace ci mostra con irriverenza ed ironia la triste realtà dell’opulenza di pochi. Accade così che la marchesa Constance de La Valle non si faccia riguardo nel nutrire il suo cane di caviale e nel mobilitare mezzo albergo quando il suo piccolo Toby ha problemi di defecazione; o che l’aranciato Mr. Crush si mostri estremamene arrogante a suoni di “vaffanculo” verso chiunque non assecondi un suo capriccio.

Un mondo annoiato e sfatto, fatto di sprechi e vizi gestito con nonchalance dal buon direttore Hansueli, a cui snob e viziati ospiti si affidano senza riserve. Un personaggio di “ponte” il direttore, tra il mondo reale dei suoi subordinati e quello spaesato e lontano dei suoi ricchi ospiti. Gli stessi camerieri, receptionist ed uscieri non sono stupiti più di niente davanti alle svariate richieste e sembrano apparire pure loro, spesso, spettatori delle stesse assurde dinamiche.

In un richiamo quasi al Triangle of Sadness di Ruben Östlund, Polanski mostra opulenza ed ipocrisia del nostro secolo e lo fa con leggerezza, ironia ed anche una discreta e voluta volgarità che funziona e piace.

Il film ha un ritmo incalzante che regge così come la sua sceneggiatura, scritta in sinergia con Jerzy Skolimowski; una scrittura a mio parere volutamente non presa troppo sul serio ma che esprime senza mezzi termini quello che vuole dire senza uscire dal seminato della commedia grottesca.

Persino i colori, il trucco e i costumi di Carlo Poggioli sanno essere esagerati e luminosi, voluta espressione di sfarzo; a tal proposito inquietante l’eccesso di trucco sul viso delle anziane signore “bisturi-mania”, dove il filler eccessivo quasi impedisce una corretta comunicazione delle donne. Anche la scenografia a cura di Tonino Zera sa essere ben studiata e sfarzosa, facendo vincere allo scenografo il premio Campari Passion for Film alla Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia.

Una commedia, a mio a parere, che ha saputo portare del discreto divertimento al regista novantenne, un Polanski sfrontato ed irriverente rispetto a quello che vuole dire in una vicenda che possiamo per certi versi definire autobiografica, avendo lo stesso regista soggiornato nel medesimo hotel-castello aspettando il 2000.

Una triste realtà, su cui il cineasta ha voluto divertirsi, in dinamiche assurde di una assurda vita, dove alla fine, come afferma la stessa marchesa: “sento che siamo sull’orlo del precipizio”, dopotutto, Millennium Bug a parte, i personaggi sanno già di essere spacciati, schiavi di una vita inetta, solitaria e vuota. Una mancanza di cui sono fin troppo consapevoli e che colmano a suon di party, caviale in cui spengono le sigarette e champagne più costosi.

D’altronde: “che a nessuno di loro faccia male il culo perché la sedia è scomoda!” come cita il buon direttore Hansueli, perché la triste verità fa male e questo lo sa bene anche Polanski.