Quattro minuti di applausi, tanti, ma sempre la metà dell’interminabile oceano borborigmico che nell’oscurità investe il pubblico ad apertura di spettacolo.
Una madrelingua originaria, emotiva, bestiale, primordiale per sussulti di passione, dal sincopato scimmiesco a rabbie vetrificate, gutturali, baritonali, ad ululii dolenti di testa, femminili, canini, e nel mezzo, tra bestemmia e invocazione il fantasma di parole, di una lingua che vuole sorgere. Come spiega la protagonista, una glossolalia, una lingua inventata, e che ogni sera viene reimprovvisata, e che corrisponde ad una interrogazione sull’identità che corre per tutto lo spettacolo, oltre che ad un movimento di rigenerazione del mondo dal nulla. Una lingua madre, di cui Ermanna Montanari, regista e protagonista, è madre e interprete, col suo spettro vocale e gestuale da tempo ai vertici, frutto di una ricerca più che trentennale sulla voce. Così si apre Madre, lo spettacolo andato in scena a Roma nella splendida Sala Borgna ( Auditorium, 13-15.4.2023 ). Il testo è un Poemetto scenico di Marco Martinelli, e come sempre il matrimonio tra i due è perfetto.
E’ uno spettacolo battezzato nel 2020, e che ha avuto come stimolo iniziale la prigionia da pandemia. Parla dunque anche di vissuti tematizzabili a partire da quella esperienza: isolamento, incomunicabilità, vendetta della natura. Come è di qualsiasi radice tuttavia, il testo fiorisce a sensi ulteriori, come del resto tutti i testi di Martinelli, pur sempre fortemente radicati nell’attualità e nei suoi risvolti politico esistenziali.
Partiamo comunque dalla tempesta prelinguistica di apertura, a cui seguirà più avanti altra tempesta tematizzata.
Prima di poter capire il pubblico sente, è tutto udito, nel buio, scenico e del senso. E questo udire, passata la sorpresa, diventa un sentire, nel senso del provare grovigli di emozioni indefinite, senza bandolo. Infine l’udire e il sentire si trasformano in un teso ascoltare.
Ci pare che delle parole ci siano … Ora emergeranno. Forse è un dialetto ? Dove siamo ? Chi è l’ombra scura, nel buio della scena tutta nera, che si scatena, al leggio di sinistra, in piedi ? Intanto a destra un intenso e struggente Daniele Roccato, fa sorgere, piangere, cantare il suo contrabbasso. Lo farà per tutto il tempo, con rari silenzi, sviluppando un suo testo musicale dove come ombre in un melting pot aleggiano talvolta, rifusi e rielaborati nel magma, Beethoven e Schubert, a volte piegati a torsioni elettroniche, il tutto sotto la sapiente regia del suono di Marco Olivieri.
Borborigmo umano e musica: topic e comment.
Non basta. La tensione del sorgere al senso si triplica al centro – generando anche la viva plurifocalità della scelta nello spettatore – con un gioco di specchi (lo specchio ed il pozzo; altri due temi). Accovacciato a terra, al lume di una lampada da tavolo, Stefano Ricci disegna col gessetto bianco su un foglio nero, e il tutto è riproiettato ingigantito in un cerchio, sulla parete di fondo scena, dove seguiamo il movimento della sua mano ora gigante, e il lento dipanarsi del disegno, con tesa reduplicazione onirica. Ma anche qui: l’immagine è silenzio, come il borborigmo è silenzio della parola. Si fa lentamente, e solo alla fine si capisce quale sia.
Ed ora che il lettore, come il pubblico, è stato sufficientemente in tensione, spoileriamo.
I due personaggi – incarnati a turno, prima lui e poi lei, sempre dalla Montanari – sono una madre e un figlio. La madre è caduta in un pozzo, e il figlio la dovrebbe tirare fuori, anche se prima polemizza su questa madre che non se ne sta a casa. Lei dal canto suo suggerisce che ce l’abbia spinta lui, per sbaglio, perché distratto. Ma quando lui propone un dispiegamento assurdo di mezzi tecnologici per farlo – dopo aver maledetto vicini e lavoranti stranieri (polacchi, albanesi) del cui aiuto non si può fidare – lei rifiuta. Scenda lui nel pozzo. Con attenzione e ascolto.
Certo. L’ascolto contro la distrazione: il rapporto umano, ma soprattutto con la natura e la vita. Perché il sentimento dell’altro, come la natura, sono vita, il senso della vita.
Il figlio deve scendere a mani nude nel pozzo, affrontare l’abisso. Ricongiungersi alla madre ? La goethiana discesa alle madri ? Il fare anima hilmaniano ? In un figlio tutto posseduto dal rimosso e dall’ombra, di cui la tecnologia incarna il lato violento, così come anche il suo razzismo verso polacchi e albanesi ?
E benché gigante, deve farsi sottile. Cioè portare a coscienza la fragilità della vita ?
E della natura di fronte alla tecnica, che distrugge e avvelena ?
Lei infatti lo accusa di aver segato alberi a lei cari, perché inutili: e ora scendendo ne sentirà le voci. Del resto l’iperbolico dispiegamento di forze (trattore, gru, cavi d’acciaio) immaginato dal figlio ricorda la cronaca del fallito salvataggio del bambino nel pozzo (Alfredino) che tenne l’Italia inchiodata negli anni ottanta. Solo un uomo calato seminudo nel pozzo, con una corda, rischiò di riuscire dove tunnel e gru fallivano.
Fragilità, ricerca del senso. Ascolto dunque. La colpa del figlio è non ascoltare.
FIGLIO – “Maadreee […] Cosa ? Non ti sento .. Parla più forte .. non ti sento .. Cosa stai dicendo ? […] MADRE – “ Sei sempre così distratto .. C’hai sempre tanta fretta .. corri di qua .. corri di là […] E poi non ascolti .. e fai finta .. sì .. non ascolti mai ..”
Ma questa madre certo è inquietante, e assume a tratti parvenze stregonesche.
E’ una madre divoratrice? E’ la vita che risucchia nell’abisso e nella morte?
E’ un’ombra dell’aldilà ? E anche lei, alla fine, ascoltava il suo bambino ?
“Lo sai .. guardare nel pozzo. Mi piace affacciarmi, con i capelli bagnati .. L’ho sempre fatto .. te lo sai bene. Ti ci portavo quando eri piccolino .. ti tenevo lì … sospeso .. su quel buco .. E ti dicevo .. Guarda !! Guarda giù .. guarda .. non aver paura .. Ma tu niente ! Proprio non ti piaceva .. ti mettevi a gridare .. scalciare”
Forse lo vuole portare con sé all’inferno ? Mentre è giù parla di una biscia, una bisciolina, che pian piano le entra nella carne. Non morde. Ma il serpente è tante cose: il tempo, il diavolo, l’indifferenziato.
E comunque, a proposito di inferno per chi non ascolta, non può non venire in mente l’albergo inferno in fiamme dello sceneggiatore impotente in Barton Fink (1991), dei fratelli Coen, quando l’amico e omicida arrivandogli contro gli urla terribile, “Perché tu non ascolti!”.
E attenzione. Il non ascolto, che cancella l’altro, è il narcisismo, uno specchio muto che rimanda solo la nostra superficie, e ci cancella a noi stessi, sbarrando la relazionalità, con l’altro e col nostro sentire rimosso.
E qui la favola che narra la madre – incarnata dalla Montanari con una fulgente bianca parrucca di lunghi capelli stregoneschi, fin sulla spalla, ora non più nell’ombra, ma a viso in piena luce – è una favola chiave, ed è proprio quella degli specchi.
Un tempo – come in ‘Alice nel mondo dello specchio’ – gli specchi erano porte verso un altro mondo dove vivevano creature diverse. Ma dopo una guerra persa con un imperatore, le creature furono schiavizzate a replicare solo la nostra immagine. Ma rubando l’anima a questo popolo, in realtà abbiamo rubato la nostra. E allora, sì, la discesa che propone la madre, oniricamente – al di là della blanda superficie politicamente ecologista – è certo una discesa agli inferi, e forse una morte, ma che come si sa, nei sogni, è segnale di rinascita e trasformazione.
Quindi si potrebbe parlare, come in psicanalisi, di una regressione al servizio dell’io, oppure della necessaria discesa agli inferi dantesca, per capire.
E naturalmente, non senza pericoli, come quello del reflusso al puro materno, che del narcisismo è la matrice.
Tuttavia i segni scenici sembrano far propendere per il positivo. Nella parte della madre la Montanari, oltre ad essere in piena luce, talora si avvicina ad un grande cerchio metallico, che momentanee sfaragliate fanno emettere bagliori solari accecanti. Se dunque il pozzo è lunare, uno specchio ambivalente, qui siamo nel paterno del sole. Nella differenziazione. Ed alla fine la madre comincia a roteare in una silenziosa danza. Sembrerebbe dunque vincere la vita
La luce sembra cancellare l’epifania di disegni che accompagnano la catabasi, e superare la tempesta – nuvole terribili – che accompagna il figlio che si incammina al salvataggio. E il contrabbasso, ora solo, si contorce i luminosi sovracuti.
Che dire …
Uno spettacolo che interroga con intensità.
Madre
Poemetto scenico di Marco Martinelli
diretto e interpretato da Ermanna Montanari
disegno e veste grafica Stefano Ricci
contrabbasso Daniele Roccato
regia del suono Marco Olivieri
tecnico luci Luca Pagliano
direzione tecnica Enrico isola