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Sospensione epifanica. L’ipnosi del cinema di Werner Herzog

Tra “Aguirre, furore di Dio” e “Cuore di vetro” l’estetica rituale di Herzog e il fantasma del nichilismo segnano un cinema di tragedia e verità

In occasione del Leone d’Oro alla carriera a Werner Herzog, assegnato in occasione dell’82esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, proponiamo questo approfondimento che prenderà in esame la poetica del cineasta tedesco e due dei suoi film: Aguirre, furore di Dio e Cuore di vetro.

Klaus Kinski in Aguirre, furore di Dio di Werner Herzog

I film di Herzog ci consegnano un cinema straniante dall’atmosfera rarefatta, in bilico tra verosimiglianza e metafisica. Natura e personaggi si amalgamano in modo singolare. L’occhio smarrito scruta il mondo naturale, forse alla ricerca di un senso o forse solo ammaliato e al contempo intimorito dalla sua maestosità. Lo sguardo cerca qualcosa di indefinito, vaga senza meta. Sonnambuli svegli, uomini assorti, rapiti. Una dimensione fuori dal tempo. Una sospensione rituale, dove per sospensione intendiamo questo congelamento temporale che si legge in primo luogo nell’azione e nell’atteggiamento dei personaggi, mentre per rituale facciamo riferimento al fatto che questa stasi sembra intrisa di un significato liturgico che sovrasta le stesse intenzioni dei personaggi, come se prendessero parte più o meno inconsapevolmente a un evento epifanico, un momento di rivelazione, apparizione.

Il tempo filmico dei film di Herzog infatti favorisce una sospensione e dilatazione del tempo narrativo a favore di un respiro poetico fatto di momenti contemplativi, ipnotici. Il mondo si fa epifania, si manifesta in tutta la sua bellezza e indifferenza alla sofferenza umana, non è mera materia, ma forza cosmica. Gli esseri umani rimangono sgomenti di fronte a tale potenza, pedine inconsapevoli, tranne i pochi visionari che cercano di prendervi parte e assoggettare lo straordinario alla propria volontà, caricandosi di un’investitura religiosa.

Quello di Herzog è un cinema segnato da un’estetica rituale: si percepiscono il pathos del rito, l’innaturalezza dei silenzi e dei gesti, la tensione gravida di significato, la reiterazione di comportamenti (come l’incedere dei conquistadores oltre la ragione nella foresta in Aguirre, furore di Dio) e la ciclicità di eventi e dinamiche. Nella sinfonia visiva della natura e nell’artificiosità cerimoniale che permea l’umano, nelle scelte stilistiche e nel turbamento che aleggia nelle atmosfere dei film si manifesta la verità estatica di cui parla lo stesso Herzog, una verità che trascende la fattualità e favorisce una comprensione più profonda, metafisica, della realtà.

Aguirre, furore di Dio (1972) racconta la spedizione nella foresta amazzonica dei conquistadores spagnoli, guidati da Lope de Aguirre (interpretato dal magnetico ed eccezionale Klaus Kinski) alla ricerca di El Dorado. La missione si tramuta presto nell’inseguimento personale di un miraggio di grandezza e gloria, una discesa nella follia che duella con le insidie di una natura quasi leopardiana ma intrisa di spiritualità ed evanescenza. La sete di potere di Aguirre lacererà in frantumi la spedizione e lo trasformerà in un tiranno pazzo e incontenibile che anela a fondare un suo impero e distruggere tutto ciò che si oppone al suo ego smisurato. Aguirre è in termini di ispirazione uno degli antenati del colonello Kurtz (Marlon Brando) di Apocalypse Now, il viaggio di Aguirre furore di Dio anticipa la caduta irreversibile nella pazzia del film di Francis Ford Coppola. Come Kurtz anche Aguirre infatti si sostituirà all’imperiosità della natura e farà di se stesso un dio da venerare e temere che sfiderà l’arbitrio del destino. In fondo “cosa è un trono se non una tavola di legno ricoperta di velluto?” dice egli stesso.

Aguirre è sprezzante e arrogante, il suo sguardo acuto ma allucinato. Si muove sbilanciato, si trascina con portamento rigido e meccanico. Inclinato avanza con passo sinistro e malvagio. Ogni sfaccettatura della sua fisicità grida strafottenza e sibilla tracotanza e sfida. Impulsivo e dominante, viscido e visionario. Più ci si addentra nella foresta più le insidie dell’animo rapiscono la ragione. “Sono il fuore di Dio. La terra che io calpesto mi vede e trema”. Galleggiando in cerchio l’uomo moderno, o almeno colui che lo anticipa, detronizza il potere temporale delle dinastie imposte dalla storia e conquista l’egemonia di colui che si autoproclama divinità in virtù della propria volontà e visionarietà ribelle.

Una ciclicità che quasi sembra evocare l’eterno ritorno nietzschiano, così come nel tradimento dei valori tradizionali (monarchia e religione ufficiali) aleggia lo spettro del nichilismo e dell’uomo che si sostituisce a Dio. “Noi insceneremo la storia come altri allestiscono pezzi teatrali”. Un attore e il suo tempo, un demiurgo nella catastrofe. Aguirre, furore di Dio sancisce l’impresa autodistruttiva del sognatore che esce dagli schemi e con sé trascina chiunque in un universo di incertezza e follia.

Passando per L’enigma di Kaspar Hauser, il successivo Cuore di vetro (1976) porta alla massima potenza la poetica finora esplicata adoperando una tecnica inusuale e affascinante: l’ipnosi. Il cast, escluso l’interprete del veggente Hias, viene ipnotizzato dallo stesso regista, rendendo sempre più pronunciata la volontà di evocare uno stato di trance e di esperienza sciamanica. La trama stessa di Cuore di vetro preannuncia il desiderio dei personaggi di fare propri i segreti della natura e inabissarsi negli oceani della sapienza. In un piccolo villaggio della Baviera del XVIII secolo la morte del solo uomo a conoscenza della formula del vetro rubino, fondamentale per l’economia del luogo, e le visioni apocalittiche di distruzione e morte che tormentano il veggente Hias seminano il delirio.

Josef Bierbichler in Cuore di vetro di Werner Herzog

Anche Cuore di vetro porta con sé una profezia di annientamento che riguarda l’umano e non tocca invece l’imperturbabilità di una natura regale e sublime. Un rito collettivo che trascende i limiti del tempo, dove l’uomo si unisce al respiro del cosmo, sfiorandone l’immensità, dove un singolo tenta di conquistare l’assoluto e depredarlo della sua sovranità per poi regnare come un dio sulla catastrofe delle macerie della stessa umanità.

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