Si ride, sì, ma si potrebbe ridere di più. Se solo sapessimo ridere come ridevano all’epoca!
Le opere di Labiche appartengono al genere cosiddetto vaudeville, ossia commedie leggere di impronta comica, che quasi sempre si reggono sul gioco di uno o più equivoci. Eppure, uscendo dal teatro, si avverte una certa malinconia che invita alla riflessione. Il delitto di via dell’Orsina (L’affaire de la rue de Lourcine) è un testo del 1857, e sia la traduzione di Giorgio Melazzi che l’adattamento di Andrée Ruth Shammah spingono il linguaggio molto vicino alla nostra epoca, abbattendo il muro del tempo sia con un’ambientazione più recente, sia riuscendo continuamente a far dialogare il presente (traduzione e adattamento) col passato (trama). Un lavoro audace e, se vogliamo, raffinato. Tuttavia pericoloso. Si tratta, infatti, di un noir dove viene portata avanti l’ipotesi che i protagonisti si siano macchiati dell’omicidio di una donna.
Zancopé (Massimo Dapporto) e Mistenghi (Antonello Fassari) si risvegliano una mattina nello stesso letto, mezzi vestiti, ma nessuno dei due ricorda bene quel che è accaduto la sera prima. I particolari pian piano riesumano dalla nebbia causata da una pesante sbornia e all’improvviso si rendono conto di essere sospettati dalla polizia per l’assassinio della carbonaia incrociata in via dell’Orsina la notte precedente. La Shammah preferisce ambientare la sua versione nell’Italia fascista, primi anni Quaranta, la guerra è ancora lontana, e la vita sociale non è così male: di manganelli e camicie nere non se ne vede l’ombra, ma la paura di essere individuati atterrisce i due amici che, in quel momento, scoprono di essere stati compagni di collegio. Amiconi, dunque, ma pronti a eliminarsi a vicenda pur di salvare la propria reputazione. Zancopé addirittura pianifica di uccidere chiunque possa testimoniare a suo svantaggio. Intanto la moglie Norina (Susanna Marcomeni), che ha intuito l’inquietudine del marito, sospetta un tradimento. Anche il cugino (Marco Balbi) è sulle spine per via della richiesta di un prestito a Zancopé. Insomma, tutti i personaggi – servitori compresi – sono ben ingabbiati in un percorso a ostacoli tra ottemperanze ed equivoci, che sono i loro patemi e i nostri divertimenti.
Il meccanismo della comicità è rifinito e funzionante. Gli attori sono ben accordati. Il pubblico ride. Ma è evidente che si potrebbe ridere di più, molto di più. Si diceva del rapporto ravvicinato tra i due periodi: purtroppo, il linguaggio della nostra epoca non si sposa più con l’aria spensierata del vaudeville. Il possibile omicidio di una donna – preso a pretesto per il palcoscenico – mette comunque una barriera morale tra la nostra realtà e il nostro desiderio di ridere. Pure se al finale Dapporto trova coraggiosamente le giuste parole, intonate al personaggio che interpreta, per far comprendere la diversità dei tempi, la malinconia è già scesa in platea.
Il mio personale pensiero corre a Labiche e ai suoi contemporanei, i quali, entusiasmati dal positivismo e cullati dal romanticismo, in teatro sapevano e riuscivano a sorridere perfino su un ipotetico femminicidio. Oggi non è più così. E non perché non si possa o non si debba sorridere della realtà di cui siamo responsabili (il teatro resta finzione e tutto si può rappresentare, ricordiamolo sempre), non perché sembra brutto ridere di una tragedia che ci perseguita, ma perché non siamo più capaci di ridere come si rideva allora. Questa è la vera tragedia. Qualcuno è riuscito a strapparci una gioia che avevamo innata e Labiche oggi ce lo fa notare con la sua arte di ieri. Paradossalmente l’autore, tramite la Shammah, ci esamina. Mette alla prova con le sue trovate il nostro grado di disponibilità al divertimento, che ci trova, ahinoi, momentaneamente impreparati.
La Shammah, infatti, introduce un personaggio fisso, una specie di manichino, che, dal fondo della scena, è rivolto sempre verso il pubblico: è chiaramente una spia, uno sguardo sugli attori possibili colpevoli di omicidio, uno sul pubblico. È l’occhio dell’autore che controlla i suoi personaggi e rimprovera noi di non saper più ridere come si rideva all’epoca sua.
C’è un altro personaggio, molto malinconico, che merita di essere menzionato: il vecchio servitore strappato al Giardino dei ciliegi. È proprio l’anima di Firs che qui si ribella e lascia la casa. Non vuole essere dimenticato, stavolta, ma è lui, servo libero, che vuole dimenticare i suoi padroni. Dice di voler tornare al paesello, ma in realtà viene da noi a distribuirci quella malinconia di cui ormai siamo ghiotti.
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Il delitto di via dell’Orsina, di Eugène-Marin Labiche, traduzione Andrée Ruth Shammah e Giorgio Melazzi. Con Massimo Dapporto (Zancopé), Antonello Fassari (Mistenghi), Susanna Marcomeni (Norina), Marco Balbi (Potardo), Andrea Soffiantini (Amedeo, vecchio servitore), Christian Pradella (Giustino, giovane servitore) e Luca Cesa Bianchi (comparsa). Musiche, Alessandro Nidi. Scene, Margherita Palli. Costumi, Nicoletta Ceccolini. Luci, Camilla Piccioni. Adattamento e regia, Andrée Ruth Shammah. Al Teatro Ambra-Jovinelli, fino al 17 dicembre
Foto di copertina: Massimo Dapporto e Antonello Fassari in «Il delitto di via dell’Orsina», regia di Andrée Ruth Shammah Foto © Francesco Bozzo