Si scrive “Favola”, si legge incubo. È il viaggio nella memoria di G.

Si scrive «Favola», si legge incubo. Ma è un incubo affascinante che ha le sue motivazioni e le sue giustificazioni. G e D, i due personaggi di questa tragedia da camera, come è stata definita, vivono rinchiusi in una stanza: insieme formano una coppia, e per oltre un’ora sembrano accordare perennemente i loro strumenti per un duetto che riusciranno a suonare soltanto negli ultimi cinque minuti di spettacolo, quando finalmente nel labirinto del dramma tutto si dipana e si chiarisce. Prima che ciò accada noi spettatori fatichiamo a seguire l’armonia del racconto (perché, in effetti, non c’è), spesso ci perdiamo nei meandri della pioggia di note che cascano disordinate. Improvvisamente, però, si intuisce che l’autore, Fabrizio Sinisi, ci sta abilmente conducendo lungo un tortuoso percorso nella memoria di G: una memoria scomposta, tutta da ricostruire.

Dalla paginetta di note scritte per lo spettacolo da Giorgia Cerruti, ideatrice del testo, regista e attrice (bravissima), si evince che la tragedia è tratta da una storia vera, come si dice spesso nel linguaggio cinematografico; e forse questo è il motivo per il quale la sua recitazione contiene una verità che artiglia immediatamente l’ascoltatore. «Il soggetto – continua la nota – è un libero richiamo al “Calderòn” di Pier Paolo Pasolini», che è ispirato a «La vita è sogno» del secentesco drammaturgo spagnolo. Eppure, al di là del riferimento alla necessità dell’uomo di sognare, non si possono azzardare altri confronti. «Favola» gode di una sua indipendenza drammaturgica matura e profonda.

Mentre G è colei che, perduta la memoria, è alla ricerca di se stessa e del suo passato, D, cioè lui (il convincente Davide Giglio), è un personaggio dalla doppia personalità. Il primo teatrale: il marito borghese e affettuoso che tenta di guarire la mente della moglie ferita da un trauma, e quindi le regala dei fiori, l’aiuta a ricordare, la stimola dolcemente e con pazienza cantandole perfino la bella canzoncina. Il secondo metateatrale: un autentico carnefice, una sorta di Cotrone (ultimo protagonista pirandelliano), il quale non si fa scrupoli di mostrare l’intima tragedia della sua donna davanti al pubblico, sfruttando tale tragedia e la di lei vaghezza per racimolare qualche soldo. Insomma, D si occupa dell’altra faccia della prostituzione, e con impudenza l’ammette: «Ripercorriamo in pubblico le fasi del nostro dolore». Lui, il marito che da borghese è tutto smorfie e moine, è pronto a trasformarsi in lenone, dichiarando per di più che tutta quella confusione che G aveva vissuto «non era sogno, ma un’altra vita». Più che Freud, più che Pasolini o Calderon, in teatro c’è sempre lui, il solito Pirandello che pone la finzione davanti allo specchio dove si riflette la realtà. Sì, perché viene anche forte il sospetto che l’intera tragedia di G sia stata causata, in un’altra vita, appunto, proprio dal viscido D, il piccolo borghese che in sogno si presenta come il re della favola bella.

Sul palco, i protagonisti ripercorrono ogni giorno le favole del proprio dolore, attraverso le immagini che si proiettano su uno schermo. Sono le visioni sognate dallo smarrimento mentale di G, quindi è ovvio che siano poco esplicative e affatto chiarificatrici, oltre che piatte e «meccaniche». Poiché la recitazione dei due protagonisti, invece, è viva, tenace, affiatata, credibile e molto coinvolgente, quelle immagini, poste in secondo piano, diventano superflue perché il pubblico segue le emozioni direttamente dagli attori e non dalle proiezioni. Accade quindi un fenomeno contrario a quel che forse era nelle intenzioni della regia. E siccome emozioni e applausi non mancano, speriamo che lo spettacolo possa replicarsi a Roma anche in «futuro… sei lettere!», dice G. quando comincia a capire che il passato non torna.

Favola, di Fabrizio Sinisi, con Giorgia Cerruti e Davide Giglio. Regia di Giorgia Cerruti. Al teatro Basilica fino a domani 23 ottobre.