“Settimo Cielo” di Caryl Churcill – La recensione

di Sara Marrone

 

La non rassicurante drammaturgia di Caryl Churchill al Teatro India: “Settimo Cielo” di Giorgina Pi + Bluemotion

 

Caryl Churchill è finalmente arrivata anche in Italia. Non lei, ma uno dei suoi testi più lucidi e meno rassicuranti, da molti considerato il suo capolavoro. Parliamo di “Settimo Cielo”, drammaturgia firmata dall’autrice britannica nel 1979: un testo estremamente attuale, urgente, perché post-coloniale, intersezionale, queer, nato e ambientato in quel pezzo di storia in cui queste categorie, a colpi di punk, stavano vedendo la luce. Seguendo la lezione di Foucault, il testo nasce per esplorare le politiche del sesso che controllano i corpi e i loro comportamenti, che definiscono generi e inclinazioni, cittadini buoni e cattivi, ordinandoli in quello che oggi si sta rivelando sempre più chiaramente, sempre più capillarmente, come il grande inganno dell’eteronormatività – e della normalità a questa (e solo a questa) associata. Portato in scena da Giorgina Pi – che dirige qui la formazione artistica residente dell’Angelo Mai, i Bluemotion – in “Settimo Cielo” – il cui testo è stato tradotto dall’inglese da Riccardo Duranti – assistiamo a un’inversione di generi, di etnie, di aspetti linguistici, oltre che della stessa linearità temporale.

Nel I atto – più incalzante, divertente, ma anche molto amaro e doloroso – ci troviamo nell’Africa coloniale dell’epoca vittoriana: è il 1879, il sesso è tabù, donne e omosessuali sono socialmente marginali e oppressi, ma mentre ufficialmente ogni libertà sessuale è repress, la censura non fa altro che sovraccaricare di significati sessuali qualunque cosa. Da qui la scelta di Churchill di smascherare tale ipocrisia tramite, appunto, delle inversioni, un “cross-casting”: ruoli di donne interpretati da uomini, coppie eterosessuali che diventano omosessuali, eterosessuali che diventano omosessuali, mentre i neri sono interpretati dai bianchi. Il II atto è invece ambientato nel 1979, ma per i personaggi sono passati solo 25 anni – come a dire che le politiche e gli oppressori ufficiali cambiano, cambiano nome, ma le loro conseguenze culturali ce le portiamo addosso ancora oggi come fosse ieri. A Londra è il tempo della ribellione, si rompono confini: l’omosessualità diventa visibile, arriva la parola “queer” a confondere il femminile col maschile, le donne mettono in discussione il ruolo che è stato loro dato. È l’epoca in cui ci si inizia a chiedere, in Occidente, se non sia il caso di pretendere di lasciare un segno nel mondo, anziché accontentarsi di strade già battute e troppo strette. Questioni e domande che sono centrali ancora oggi, rinnovate (e non nuove) in un nuovo mondo globalizzato. L’eccentricità politica dei punk di fine anni ’70 è l’antenata della comunità femminista e LGBTQ di oggi che usa il corpo come strumento politico di sovversione. Perché, come ci spiega Giorgina Pi nella nota di regia, «il rapporto tra sesso e potere attraversa ancora i nostri giorni».

I Bluemotion, nel loro lavoro, ci fanno sentire il desiderio di rompere e sovvertire, di gettare sulla scena tutti i qualunquismi, le frasi fatte e obsolete su ruoli e generi, le ipocrisie secolari della nostra società, per bruciarle, demolirle, e sostituirle con un appassionante desiderio di libertà, con i corpi stanchi di vita degli attori e delle attrici sul palco. Il loro “Settimo Cielo” è un microcosmo attraversato da dinamiche complesse, ma all’interno di una generale fluidità del discorso. La lingua dei personaggi si srotola senza filtri – le parole che parlano del sesso sono più disturbanti di un corpo nudo. I Bluemotion hanno tutta l’aria di essere una compagnia affiatata, visibilmente mossa da un impegno artistico, politico e civile condiviso.

Settimo cielo”, parte di “Non Normale, Non Rassicurante. Progetto Caryl Churchill” a cura di Paolo Bono, è una produzione Teatro di Roma e 369 gradi, in collaborazione con Angelo Mai, e sarà in scena al Teatro India ancora fino al 31 marzo.