Una tragedia rivisitata e attualizzata, un gruppo di dodici giovani, il palco acceso di luce: sono questi gli elementi essenziali per il primo spettacolo, in prima nazionale, del 76° Ciclo dei Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, direzione artistica di Giancarlo Marinelli
L’apertura del nuovo Ciclo dei Classici al Teatro Olimpico non poteva essere più sorprendente e significativa di questa: per la regia di Gabriele Vacis, il regista già presente a Vicenza nella scorsa edizione con Prometeo, i ragazzi e le ragazze del PEM (Potenziali Evocati Multimediali) hanno portato in scena l’opera Sette a Tebe ispirata alla tragedia di Eschilo. Una rivisitazione nuova che, dal mito greco, approda ad una serie di riferimenti più che mai attuali e profondi. Ci sono la storia e la narrazione della battaglia, ma c’è anche il nostro mondo che, a distanza di secoli, non sembra essere poi così diverso da quello passato.
Eteocle e Polinice, figli di Edipo, si contendono la città di Tebe, si affrontano per conquistare il comando assegnando, a ciascuna delle sette porte della città, i migliori guerrieri dei rispettivi eserciti. Finiranno per uccidersi a vicenda, vittime della loro dinastia, maledetta dal padre stesso, e carnefici, fratelli di sangue incestuoso e di morte.
Sul palco, la tragedia della guerra assume le sfumature di un dualismo: da una parte, gli uomini assetati e smaniosi di uccidere, dall’altra il gruppo di donne disperato, implorante gli dei e le statue sacre, che ha del sangue un’esperienza diversa e che cerca di scongiurare in ogni modo l’arrivo e il compimento del dramma. Donne e uomini si affrontano in una serie di dialoghi, di canti dolorosi e bellissimi allo stesso tempo, anche in dialetti diversi, segnando il confine della loro differenza e le caratteristiche di un mondo che possiamo vedere ancora oggi.
La voce narrante accompagna lo svolgimento degli avvenimenti riportando l’attenzione all’oggi, a come, di fatto, tutto cambi senza nessun reale cambiamento vero (il paradosso gattopardiano, anche se azzardato, ci sta tutto), a come la guerra, le armi, la sete di sangue percorrano l’uomo, la sua storia e le sue azioni. Sette a Tebe, nella veste firmata da Vacis, diventa un mito nel pieno senso della parola: un mito che insegna, che vuole dire qualcosa di più oltre alla finzione letteraria, un ponte che collega l’immaginazione al presente, alla realtà senza illusioni e perbenismi. Il mito regala immagini e dimensioni lontane ma, a ben guardare, nasconde e restituisce quelle dinamiche che fanno fatica ad emergere perché, semplicemente, si vive con e in esse.
In questo delicato passaggio rivelativo, di grande impatto, i protagonisti sono loro: i ragazzi e le ragazze del PEM, provenienti dalla Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino. Lucia Corna, Edoardo Roti, Pietro Maccabei, Gabriele Valchera, Andrea Caiazzo, Eva Meskhi, Erica Nava, Davide Antenucci, Enrica Rebaudo, Lucia Raffaella Mariani, Lorenzo Tombesi, Letizia Russo: tutti giovanissimi, in grado di trasportare la storia e le loro storie personali sul palcoscenico, con l’obiettivo di lasciare uno spunto, una riflessione, un’emozione che sappiano decifrare la complessità e illuminare, anche solo di poco, il buio dell’oggi. Un’oscurità fatta di ambiguità e di opposizioni.
Accompagnare la comprensione tramite l’identificazione significa svelare entrambi i lati che appartengono alla dimensione umana. Quella dualità, vita-morte, amore-odio, mito-realtà, natura-cultura (con cui si apre lo spettacolo), guerra-pace, che sembra scandire l’ordine delle epoche e dei tempi, dall’antichità alla contemporaneità. È nella contrapposizione tra due mondi, due dimensioni apparentemente lontane che sta, nel mezzo, quel briciolo di consapevolezza e di verità ed è qui che si incastra il senso di Stella meravigliosa, l’edizione dei classici di quest’anno, ben evidente e percepibile in questo suo primo spettacolo.
Sette a Tebe, con questo gruppo, è sì mito ma anche racconto che attraversa il tempo e sofferenza, deriva, perdita che vuole conquistare, morte che tenta la sopravvivenza, l’abbraccio fatale tra amore e guerra, dimenticanza inevitabilmente accanto al ricordo sbiadito, divisione che vuole colmare la vita stessa. Un doppio stato che vive, in modo paradossale, anche adesso, forse più che mai: nelle bombe e nei conflitti attuali, nei visi di coloro che conoscono la morte in tutte le sue angolazioni, ma anche nel “non mi colpisce” vissuto, nella non conoscenza, nell’unica cosa che resta di una persona, il suo nome, nell’assenza materiale della pace perché la si può solo che immaginare.
Grazie ai giovani del PEM, la distanza tra pubblico e palco si annulla. Nella parte finale dello spettacolo, tolti i panni “tebani”, ognuno ha ripreso le proprie vesti, diverse, colorate, personali, per raccontarsi e restituire al singolo la dimensione altra del mito e, soprattutto, del teatro.
Quella in cui ognuno si può rivedere, può riconoscersi, può rimanere colpito in più modi: ci si accorge di cosa resta, un mondo piccolo ma potente che grida il suo essere vivo e che apre il cuore a tante domande. Con esso, il buio resta ma è illuminato, anche solo per lo spazio temporale di uno spettacolo: è questa la potenziale e reale salvezza in tutte le tragedie, scritte o vissute, ieri come oggi, da Eschilo e alla mitica Tebe al presente.
“Sette a Tebe” – Teatro Olimpico di Vicenza – Ispirato alla tragedia di: Eschilo – regia di: Gabriele Vacis – traduzione di Monica Centanni – drammaturgia di: Gabriele Vacis e PEM – con le attrici e gli attori di Potenziali Evocati Multimediali: Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera – scenofonia e allestimenti: Roberto Tarasco – cura dei cori: Enrica Rebaudo – fonico: Riccardo Di Gianni – produzione: PEM Impresa Sociale con Artisti Associati Gorizia, Fondazione ECM Settimo Torinese
Immagine in evidenza/di copertina: @Roberto de Biasio