Poliziotto – “Lei chi è?” / Zucco – “Sono l’assassino di mio padre, di mia madre, di un ispettore di polizia e di un bambino. Sono un assassino”
Così – nel testo di Koltés, Roberto Zucco (1988), di recente in scena a Roma per la regia di Giorgina Pi – risponde il protagonista, quando lo arrestano, semplicemente arreso al destino, senza più controllo, abbracciato alla ragazzina che lo ama e lo ha aspettato, benché all’origine stuprata e abbandonata da lui, ed in conseguenza di ciò prostituita dal fratello.
E già qui si fa abbagliante la poesia delle contraddizioni, tra darkness e degrado sociale, falso perbenismo popolare e follia, dove la follia, a braccetto con l’amore, pare quasi far la figura migliore.
Del resto nel testo, il degrado sociale – con torsioni satiriche, di deformazione espressionista – investe il sociale in tutti i suoi strati. Infatti la ragazzina è la vittima di una famiglia degli ultimi, forse zingari, dove perbenismo e repressione sono funzionali solo ad una verginità da vendere al matrimonio (così madre e sorella maggiore), mentre il padre pensa solo a bere.
Ma in una delle scene di svolta, più surreali, nel degrado e nell’assurdo affondano anche una signora borghese, e la folla anonima che frequenta il parco dove avviene il fattaccio (l’uccisione da parte di Zucco del figlio della signora, ed il rapimento di lei). E nel degrado affondano gli stessi poliziotti che, come i cittadini, naufragano in un attendismo idiota e vigliacco.
La donna è una borghese insoddisfatta, che gioca alla seduzione, senza sapere che sta toccando una innocente ed incandescente follia dostoevskiana, e quindi giocando col fuoco.
Signora – “Si sieda accanto a me. Mi sto annoiando. Lei sembra timido / Zucco – “Non sono timido / Signora – “Eppure le sue mani tremano […] Le piacciono le donne? / Zucco – “Sì, molto / Signora – “Ha mai maltrattato una donna? / Zucco – “Mai / Signora – “Ma la voglia di essere violento […] ce l’hanno tutti, prima o poi / Zucco – “Non io. Sono dolce e mansueto […] Chi è quel tipo? / Signora – “Mio figlio […] Ha quattordici anni […] E’ un piccolo moccioso
Poi lui le chiede se ha un auto, e lei dice di sì, ma sminuisce. Marito taccagno.
Quindi?
Annoiata del marito e del figlio. E lui un bersaglio.
Ma improvvisamente la calma apparente si capovolge in tragedia.
Lui la minaccia con la pistola, per le chiavi dell’auto, che lei gli nega. La prende ad ostaggio, e prima di andare via, uccide il figlio. La polizia non osa agire, e la folla disquisisce su cosa si dovrebbe fare, con una torsione comico assurda surreale
Mancano emozioni e morale.
Chi ha emozioni, purezza e fragilità, pur nella follia, è lui, che benché assassino, sembra continuamente spaesata vittima. Si era dichiarato dolce e mansueto, e forse lo è davvero, ma anche scisso e violento quando gli impulsi lo travolgono. Certo – a differenza degli altri – è intenso e diverso. E proprio per questa intensità – anche se la società lo cerca e lo schiaccia per i suoi crimini – le donne lo vogliono, lo amano come un àncora a cui aggrapparsi per fuggire alla gabbia sociale. Fuggire come lui fugge alla gabbia psichica delle emozioni, e al carcere come gabbia di pietra, tomba della vita.
“Ho ucciso mia madre perché era soffocante”
dirà il vero Roberto Succo, serial killer italiano a cui l’autore si ispira.
Così, alla stazione con la donna in ostaggio, vuole prendere il treno, per Venezia, per fuggire al carcere.
Ma non in quanto prigione fatta di mura. Bensì perché
“Me la faccio sotto a stare in mezzo alla gente. E’ perché sono un uomo. Lei non ha paura perché è una donna […] già adesso, sono già rinchiuso in mezzo a questa gente. Non li guardi. Guardi che facce cattive hanno. Non ho mai visto tanti assassini. Al minimo segnale comincerebbero ad uccidersi tra loro”
Splendida pittura della genesi del delirio di persecuzione, che proiettando all’esterno la sua violenza omicida ne descrive però anche l’origine di fragilità e purezza, come reazione difensiva di una psiche iper fragile. E la rimozione non può che renderlo puro ed intrigante.
E quindi, come la ragazzina stuprata, la signora, nonostante gli rinfacci l’assassinio immotivato del figlio, gli dice che vuole andare con lui.
Ma lui non può.
Lo sguardo degli altri è prigione ed aggressione.
Il tema della gabbia, dei muri, della prigionia. E’ costante.
Ed in chiave straniatamente filosofica – quasi uno stralunato teatro beckettiano di conversazione – viene sviluppato soprattutto in scene che la regia dilata nel vuoto, il vuoto come alterità rispetto al sociale, come fuga alienazione, ma anche pausa e respiro.
Così nelle tre scene del parco, della stazione, della metrò, sempre una panchina nel vuoto, come un momento dove sedersi, riposare.
E se parco e stazione sono intermedie tra parola e fragilità paranoica (timore e tremore),
allo stato puro dello straniamento è da ascriversi quella che si svolge in metropolitana, dove uno Zucco in fuga, nelle viscere della terra, di notte, sta su una panca con un vecchio, in perplessa e dolce comunione di condivisione dello smarrimento delle coordinate esistenziali, mentre dietro campeggiano silenti, come monito a disturbare la pace, una fila di manifesti col suo volto, e la scritta RICERCATO.
Vecchio – “Ero contento di aver preso l’ultimo metrò, quando incrocio questo labirinto di corridoi e scale. Non sono più riuscito a riconoscere la mia fermata […] ignoravo che dietro il percorso che faccio tutti i giorni si nascondesse un oscuro mondo di tunnel […] e quando mi sembra di vedere un’uscita, un enorme cancello mi blocca il passaggio. Punito per la mia distrazione .. Ma mi parli di lei / Zucco – “Sono un ragazzo normale […] Ho sempre pensato che il miglior modo per vivere tranquilli fosse essere trasparenti […] Io sono come un treno che attraversa tranquillamente una prateria, e che nulla potrebbe far uscire dai binari / Vecchio – “Si può sempre uscire dai binari. Credevo di conoscere il mondo. Eccomi fuori. Quando si riaccenderanno le luci dovrò uscire, vedere la luce senza aver visto la notte. Non saprò più qual è il giorno e quale la notte. Cosa fare / Zucco – “In effetti c’è di che aver paura”
Sembra la prigionia simbolica del film L’angelo sterminatore (Bunuel 1962), con il suo corollario di paura, smarrimento, anche se non manca il rassegnato senso dell’attesa del Godot beckettiano.
La gabbia, il vuoto.
Ma Giorgina PI – accanto a incombenti gigantografia a parete, di volti, nei cambi scena (stati d’animo, sofferenze minaccee) – usa molto anche altri due strumenti scenici.
La parete, nelle scene notturne, ed una nebbia derealizzante a luce piena.
La nebbia derealizzante attiene all’anestesia sociale, all’eutanasia della vitalità e dell’innocenza.
Il muro – una parete mobile che segmenta la scena del bordello o della casa della ragazzina in un dentro e un fuori – è allo stesso tempo diaframma dell’ipocrisia e metafora della reclusione.
Così la ragazzina è reclusa nella propria famiglia, e poi nel bordello. E così operano le prigioni.
Non a caso la scena finale dell’evasione, con Zucco sul tetto, e che poi precipiterà nel vuoto, morendo, ha il suo culmine nel suo delirio poetico, dove oppone i muri e il sole, mentre voci corali (guardie e carcerati), come in una tragedia greca, lo sferzano con infinite domande
“Voce – Per dove sei scappato, per quale via? / Zucco – “Dall’alto. Non bisogna cercare di attraversare i muri, perché al di là dei muri ci sono altri muri, c’è sempre la prigione. Bisogna evadere dal tetto, verso il sole. Non metteranno mai un muro fra il sole e la terra […] Guardate il sole / Voce – Il sole ci fa male agli occhi /Zucco – Guardate cosa sta uscendo dal sole. E’ il sesso del sole. E’ da lì che viene il vento. E’ la sorgente dei venti”
Il sole fa male agli occhi.
Della serie che, come nella caverna platonica, la verità è pazzia e dolore. Meglio il carcere, nel gioco parallelo di guardie e ladri, due facce della stessa medaglia.
Ma per lui no.
La sua follia è sogno, eros, anelito alla vita. Anelito selvaggio incosciente violento fragile delittuoso. E perciò non può che cadere, morire, perché la follia è una rivoluzione cieca.
Un colpo di scena poetico, con cui Koltes modifica la realtà (Succo in realtà si suicidò soffocandosi con un sacchetto di plastica)
Certo, la poesia.
Perché non va dimenticato che Koltès, morto a soli quarant’anni di Aids, è stato in quasi tutti i suoi testi stralunato poetico surreale cantore degli ultimi, e del disagio delle banlieu parigine, nella Francia post coloniale.
E va quindi ad aggiungersi, nel curriculum della regista, ad altri autori di forte impegno critico sociale, dove accanto ai più noti Pasolini e Heiner Muller troviamo anche figure più eccentriche, come la poetessa statunitense Adrienne Rich (1929-2012) femminista e gay, e la musicista Kae Tempest (1985) poetessa, romanziera, drammaturga della nuova scena inglese.
La regia – come abbiamo detto – si muove qui con una grammatica simbolica asciutta ma efficace, perfetta nel sottolineare e lasciar spazio alle articolazioni del testo, e alla centralità attoriale.
Ben diretti infatti – e bravi tutti – gli attori, a casa ciascuno nella diversità dei toni richiesti, popolaresco e violento nelle parti dark, straniato e sospeso nelle parti filosofiche o poetiche.
E, ove serva, misurato nei gesti muti.
Lo spettacolo si snoda così nel suo crescendo, e si sublima nel coro finale, a smorire, sgomento, che sottolinea la prossima caduta dell’angelo
E’ pazzo. Cadrà. / Fermati Zucco! Ti romperai il muso / E’ pazzo / Cadrà /(urlando) Cade
Dissolvenza.
Nebbia abbacinata di luce cieca. E tutto si scioglie in applausi
________________________________________________________________________________________
Roberto Zucco, di Bernard Marie Koltés – Progetto di Giorgina Pi /Bluemotion – traduzione di Francesco Bergamasco – adattamento, regia, scene e video: Giorgina Pi – colonna sonora originale: Valerio Vigliar – ambiente sonoro: Collettivo Angelo Mai – con Valentino Mannias e Andrea Argentieri, Flavia Bakiu, Monica Demuru, Gaia Insenga, Giampiero Judica, Dimitri Papavasileiou, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Kevin Manuel Rubino, Alexia Sarantopoulou – Prima Nazionale – Coproduzione REF – produzione: Teatro Nazionale di Genova, Teatro Metastasio di Prato e Romaeuropa Festival 2024 – in corealizzazione con La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello – in accordo con Arcadia; Ricono Ltd, per concessione di François Koltès – Roma, Teatro Vascello, 25-27 ottobre 2024