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Sentimenti robotici e disastri relazionali

Dal romanzo di Ishiguro alla scena: un melologo ipnotico tra luci, ombre e domande sull’umano

Interessante e controverso esperimento il ritorno al Teatro India, purtroppo per un solo giorno (dopo il debutto sempre lì, per due giorni nell’agosto del 2024) di Klara e il sole riduzione teatrale dell’omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro (premio Nobel 2017). Il tutto nella cornice della rassegna breve IF/INVASIONI (dal) FUTURO ( 25-31.8.2025) progetto multidisciplinare che il gruppo lacasadargilla dedica alle scritture e ai temi della fantascienza. Presentato come spettacolo multimediale e melologo, in realtà è multimediale come la maggioranza di quel che ormai la scena ci propina, dove infatti quasi mai assistiamo al teatro nudo, ma sempre invece al supporto di proiezioni e a quella che ormai va sotto il nome di drammaturgia musicale.

E anche non proprio lo si può dire melologo, non riducendosi alla lettura di un testo letterario con accompagnamento. Anche se in parte questo accade (soprattutto nella figura della protagonista e voce narrante, il robot B2 Klara, prevalentemente al leggio) è tuttavia perfettamente presente una dinamica relazionale tra più attori. Interessante e controverso – pur nell’eleganza performativa ed iconica, lievemente raggelata, quasi wilsoniana – lo è per lo stesso motivo per cui lo si può dire del testo, con l’aggravante della pericolosità sempre insita nel teatralizzare qualcosa di nato per altro registro artistico. E qui in particolare lo specifico della narrazione straniata spinge ad una lentezza talora un po’ spenta. Tutto grava sulle spalle dell’elegiaco robotico, relegando gli altri attori a volenterose comparse, a minor o maggior grado di intensità.

Perché reputo controverso il testo di Ishiguro? I testi dell’autore sono sempre intelligentemente ipersensibili, ma in questo caso per me non ha saputo resistere al buonismo fiabesco insito in tanti testi sui robot buoni, sensibili, umani. Il robot come cristica vittima infantile e specchio ustorio della pochezza e della deriva dell’umano. L’idiota dostoevskiano, il buon selvaggio, in minore.

Klara, robot ad energia solare, e le cui batterie sono a tempo, sarà scelta da una quattordicenne, Josie, come sua AA (amica artificiale), perché, benché sia un modello obsoleto, è particolarmente abile ad apprendere. Abbiamo così, attraverso lo sgranarsi, comporsi e scomporsi delle sue sensazioni ed osservazioni, il costruirsi davanti a noi dello stupore di una coscienza naif, ma per questo incorrotta, e capace di un amore semplice, fatto di attenzione e protezione. Di ascolto senza pretese, quello di cui non sembrano più capaci gli umani, specialmente gli adulti, e soprattutto la madre, prigioniera di lutti e proiezioni narcisistiche, dove il dolore e le speranze sono solo cose sue, cieche di fronte all’essere dell’altro, in questo caso la figlia.

Pian piano, attraverso il mix tra narrazione agita e rivissuta, e con un buon dosaggio di suspence e indizi e rivelazioni, vediamo infatti delinearsi attorno all’eroina un mondo distopico, dove si pratica la sostituzione in nome di perfezione ed eccellenza. Per es tutti gli operai della fabbrica del padre di Josie sono stati sostituiti dai robot. Lui compreso, ma apparentemente concorde e felice. Ma la distopia rende mostruose e disfunzionali anche le famiglie, e dunque l’universo relazionale. Così la madre di Josie ha perso una figlia prima di lei (Sally), e si allude al fatto che non abbia funzionato il potenziamento genetico. Ora anche Josie è soggetta a potenziamento genetico, ma sembra malata, e forse destinata a morire anche lei. E quindi Klara è progettata dalla madre come apprendista psichica. Deve apprendere per replicare la psiche di Josie, alla quale poi verrà fornito un corpo (sulla base di un ritratto olografico fatto da un misterioso dottore). 

Il lutto è così rimosso attraverso il progetto della perfezione: un clone dei sentimenti, e l’immortalità.

Klara tuttavia segue le leggi robotiche di Asimov. I robot proteggono gli umani. E quindi, seguendo le proprie superstizioni sul sole (secondo un simbolismo luce/tenebra), si fa accompagnare dove il sole tramonta, per invocarne l’aiuto. Sta di fatto che quando il sole la mattina entra nella stanza di Josie, lei guarisce. E da allora comincia a crescere.

Comincia a crescere. Questo particolare fila via di striscio, sommerso dal sentimentalismo dell’addio tra Klara e Josie, con reciproche dichiarazioni d’amore. Ma è forse uno dei sottotesti psicanaliticamente più importanti. Come insegna infatti la psicologia relazionale, in molte famiglie si assiste ad una patologia che blocca lo scorrere del tempo (il tempo sospeso), dove i figli sono impediti allo svincolo ed alla crescita, per tamponare lutti e altre patologie genitoriali. Il figlio è paziente designato, in funzione di uno stallo voluto e di una rimozione anestetizzante. E allora il sole non è che il simbolo dello sguardo di Klara, che vedendo Josie annulla la rimozione e il blocco, e scioglie nell’accettazione la rabbiosa ipoteca narcisistica materna.

Certo paga il prezzo. Finito il compito torna in magazzino. Ma non ha rimpianti.

E’ meglio non avere i sentimenti? In famiglia se lo chiedono. Klara non sa se li ha, ma non ha dubbi sul loro valore, e converte anche il padre, che parlando con lei elabora il dubbio sulla possibilità della replicabilità dell’anima. Anche perché l’amore è negli occhi degli altri.

Il buonismo e la correttezza dell’assunto purtroppo rischiano però di cancellare il subdolo quadro distopico sul mondo arelazionale e manipolativo che Ishiguro così abilmente ci ha fatto intravvedere. Manca la crudeltà che lui stesso ha saputo porre nel suo romanzo del 2005, Non lasciarmi, dove i protagonisti sono cloni inconsapevoli, allevati come umani per diventare poi donatori di organi e destinati alla morte.

Non so perché, ma dove i protagonisti sono cloni (quindi tendenzialmente indistinguibili dagli uomini), sempre più incisivamente si va sul tragico, come in Blade runner (Ridley Scott, 1982) o in Westworld – Dove tutto è concesso (serie TV, 2016). I cloni sono carne da macello. I robot invece, proprio perché distanti, vengono pateticamente umanizzati.

Rimane comunque sempre in Ishiguro l’assunto manipolativo crudele dell’ USA E GETTA. Così è per il maggiordomo in Quel che resta del giorno, così per i cloni di Non lasciarmi, così qui per la robot Klara, inutile, parcheggiata, dimenticata una volta finito il compito (nonostante il saluto emotivo con Josie).

E veniamo alla scena. 

Lo spazio è un luogo di ombre presenze memorie. Di evanescenza, secondo il flusso della narrazione efficacemente robotica e sgranata di Klara, una splendida Petra Valentini, che deve reggere inesausta l’intero arco scenico (1 ora e mezza). Sgrana mimando la lentezza perplessa del pensiero che si forma nella somma delle percezioni, e poi accelera nei sunti narrativi, per impennarsi ove la invade l’ansia di salvazione, la rincorsa al sole. Gli altri tutti professionali, ma nella norma, le fanno da rimbalzo relazionale.

Lo spazio e l’evanescenza. 

A metà tra fondo e spettatori, pendono velari neri trasparenti, con un varco al centro, occupato da lei al leggio. Così gli altri emergono in avanscena, e refluiscono nel retro, visibili in trasparenza, come incombenti presenze della memoria. Come se li evocasse la narrazione di lei, fino alla reincarnazione. 

E sui telari, mentre persiste costante il commento musicale, elettronico, seriale, prevalentemente soft, si sgranano proiezioni che duplicano le immagini da lei raccontate, percezioni sgranate e multiple da ricomporre ad unità di senso, a seconda del verso della luce, e del grado della sua attenzione.

Dilatano universi di senso.  Un momento mi colpisce e ricordo in particolare.

La madre di Josie chiede a Klara di incarnare i sentimenti di Josie, come in uno psicodramma con lei, ed effettivamente Klara è così brava che le reazioni della madre sono le stesse che con la figlia, e anzi, come nello psicodramma meno represse, più vere. Così quando Klara-Josie dice di essere stanca, la madre si scusa, ma quando dice che guarirà reagisce con ansiosa rabbia aggressiva, ricordandosi che anche Sally, la morta, diceva così. E sui teli? Giganteggiano moltiplicati grandi occhi. La figlia la guarda? L’occhio persecutorio della colpa? Lo sguardo silenzioso della verità?

Questa forse è la cifra più interessante di questa regia, questo va e vieni onirico di presenze immagini percezioni, che unito alla voce sgranata ed ipnotica dell’attrice robot è come se impalpabilmente ti togliesse il terreno da sotto i piedi, insidiando la superficie della favola, e gettandoti nel dormiveglia del dubbio.

E il pubblico si risveglia con un caloroso applauso.

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Klara e il sole  – Spettacolo multimediale/melologo – Progetto di lacasadargilla – regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni – con Cecilia Fabris (Josie), Lorenzo Frediani, Alice Palazzi, Edoardo Sabato, Tania Garribba, Petra Valentini (Klara) – adattamento Roberto Scarpetti dal romanzo di Kazuo Ishiguro – drammaturgia musicale Alessandro Ferroni e Gianluca Ruggeri – ambienti visivi Maddalena Parise – costumi Camilla Carè – drammaturgia delle luci Omar Scala – disegno sonoro Pasquale Citera – electronic devices Alessandro Ferroni – assistente alla regia Matteo Finamore – assistenti alla drammaturgia Angelica Azzellini, Anna Farina, Leonardo Ravioli tecnico video Andrea Gallo – Teatro India, 27.8.2025

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