Se foste esseri spericolati

Una riflessione midollare sulla fenomenologia del desiderio e sullo spazio indicibile che vi è dietro la parola

Solo l’immagine, la gigantografia statica, dilatata, di un cesto di fragole; il fotogramma proiettato che satura la scena. Dopo l’immagine, la parola: fragola, frrragola, frrrrragola, labiale fricativa, iterata a dismisura, come meccanismo vibrante capace di innestare e figurare il desiderio.

Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli in Morte a Venezia di Liv Ferracchiati

Ogni volta che sarete attraversati da un pensiero che non si può manifestare apertamente, potete alzarvi e mordere! la voce roboante pervade lo spazio ma in basso, sull’orlo destro del palco, il cesto di frutta rimane intatto.

È la riflessione midollare sulla fenomenologia del desiderio che si fa premessa per “La morte a Venezia” di Liv Ferracchiati in scena al Teatro India di Roma dal 5 al 9 febbraio e che, ispirandosi all’opera di Thomas Mann, ne declina liberamente la gestualità e le rotte a partire da un dialogo tra sguardi.

Il potenziale dell’azione viva

La questione, la stessa che accende Gustav von Aschenbach, la questione nasce dalla comprensione del piano scabroso del desiderio, della sua natura enigmatica, non unicamente riconducibile al piano dei sensi.

E su tale accenno, per la ragione stessa della sua indistricabilità, vanno a formularsi due spinte equivalenti ed opposte: la scabrosità e lo sgomento, il tenace e stoico dominio sul desiderio nascente e la tensione febbricitante e ferina che induce a contemplarlo, a condurlo fino alle sue estreme, indicibili conseguenze.

Ed ecco che, accedendo dall’oscurità della platea, Liv si fa Gustav e riflette sulla fenomenologia della bellezza, sulla sua provvisorietà, sulla spinta metamorfica che assoggetta un corpo quand’esso avverte su di sé la pressione di un essere guardante.

Il pubblico stesso, per sua condizione di organismo guardante viene allora coinvolto: stravolgendo il punto si osservazione, il regista realizza un’iperbole dello sguardo indirizzando la videocamera verso il complesso spettatoriale che ad esso risponde, sbigottito e distorto.

È un guardare, guardandosi, un gioco riflettente che agisce duplicando e stravolgendo l’immagine e che si origina dal presupposto di uno sguardo ora inteso come energia materica del corpo su un altro, o sul medesimo, corpo.

Se foste esseri spericolati – sembra dirci il regista – sperimentereste il rischio del desiderio, dareste un morso.

Di un trittico, o la moltiplicazione dell’immagine

Ma c’è un elemento che manca, la creatura guardata, il corpo osservato ora consapevole, ora linguisticamente distante, intraducibile. Nelle vesti di Tadzio, una donna (Alice Raffaelli) emerge dall’osservatorio buio del pubblico, accoglie su di sé la luce della scena, inizia a muoversi.

Tu, Oh Dio, attraversi silenziosamente lo spazio sconosciuto!

La donna si muove, osservata dallo sguardo meccanico della fotocamera sul treppiede, e la sua immagine si triplica: è ora corpo vivo, immagine proiettata e ombra, sagoma scura che si staglia sul lato sinistro del palcoscenico.

Tenta ora di parlare, ma la sua lingua è muta, disarticolata, indistricabile all’orecchio dell’osservante: parli una lingua che non conosco! La parola si frappone, ma la sua connaturata limitatezza alimenta ed incalza la portata del mistero, e il corpo desidera, guarda, si schianta, senza conoscere la natura del suo desiderio.

Ora io ti capisco perché ti invento. Eppure ciò che so di te è che sei una macchia blu con la testa gialla che si muove.

Sull’orlo dell’elemento

Gli occhi di Tadzio sono ora terrificati, pervasi da un orrore ancestrale, i suo movimenti sono meccanici, rigidi come quelli di una marionetta, l’inquadratura si poggia e oscilla su una luce artificiale, simile ad un sole, tremula. Addio Venezia, sono febbricitante! Addio a te che balzi fuori dall’elemento!

L’elemento è malato, l’acqua del lido è contaminata, e Gustav è attraversato dalla consapevolezza lancinante della vecchiaia, della distanza dall’oggetto del desiderio, dal volto giovane, che ora sembra deformarsi dietro l’occhio voyeuristico della fotocamera.

Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli in Morte a Venezia di Liv Ferracchiati

Anche la mente è un luogo corrotto, aperto alle incursioni, forse il più grottesco nella topografia di luoghi che possono condurre allo schianto. Eppure, sul finire, un dialogo accade, ed è strano parlare di quel che accade oltre la parola. Il guardante e il guardato si avvicinano epidermicamente, sensualmente, scelgono di porsi nello spazio dell’articolato, nel tempo dell’oscillazione.

La parola fallisce perché il mondo è indicibile.

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La morte a Venezia  – Libera interpretazione di un dialogo tra sguardi  – ispirato a La morte a Venezia di Thomas Mann  – drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati  – con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli -movimento Alice Raffaelli  – dramaturg Michele De Vita Conti  – aiuto regia Anna Zanetti / Piera – Mungiguerra  – assistente alla drammaturgia Eliana Rotella  – scene Giuseppe Stellato  – costumi Lucia Menegazzo  – luci Emiliano Austeri – suono spallarossa – voce di Tadzio Weronika Młódzik – consulenza letteraria Marco Castellari  – produzione Spoleto Festival dei Due Mondi, Marche Teatro, Teatro Stabile dell’Umbria, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini  – in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa – Teatro India al 5 al 9 febbraio 2025