Ritorno alle origini

Il nuovo capitolo della saga di Alien è una piacevole sorpresa che ne ricattura lo spirito originario risollevando le sorti del franchise.

Lo confesso, la tardiva stesura di questa recensione è dovuta ad una altrettanto tardiva visione di Alien: Romulus causata da un interesse praticamente inesistente verso una nuova entry nella saga fantascientifica.

(c) 20th Century Fox

Dopo il deludente Alien: Covenant (2017), la serie aveva perso completamente di vista le nobili origini dei primi film, in particolare il seminale primo capitolo Alien (1979), diventando uno dei grandi franchise hollywoodiani eternamente destinati a sfornare nuovi capitoli col solo scopo di portare soldi nelle casse dell’ormai onnipotente Walt Disney Company.

Eppure, dopo ripetuti inviti a prendere visione del film, un dubbio si è insinuato dentro di me, un po’ come l’embrione dell’alieno che spinge per farsi strada fuori dalla gabbia toracica dello sfortunato organismo ospitante, la possibilità che dietro a questa ennesima produzione dello studio system americano potesse nascondersi qualcosa di ancora meritevole.

Dopo i brillanti esordi autoriali, per poi diventare un regista dalle fortune alterne, Ridley Scott, autore del primo iconico film, si è completamente venduto alla macchina commerciale hollywoodiana, e mentre con Prometheus (2012) aveva ripreso in mano la serie che gli aveva donato enorme successo portandola in una nuova e promettente direzione dai risvolti filosofici, nel successivo Alien: Covenant il regista inglese aveva stupidamente ceduto alle pressioni del pubblico (e degli incassi) compromettendo la sua visione.

Un film dalle interessanti premesse sul ruolo, il significato e i rischi dell’intelligenza artificiale era così diventato un insoddisfacente ibrido che reintroduceva nella sua narrazione i mostri alieni nati dalla mente di H.R. Giger, piuttosto fuori luogo rispetto ai nuovi concetti messi in moto nei due film e la nuova direzione intrapresa.

Covenant risulta una versione bastardizzata di quello che avrebbe potuto essere il promettente sequel di Prometheus, sacrificando la centralità della riflessione filosofica sulle origini dell’uomo, il significato della vita e il potere di crearla in favore del ritorno sulla scena degli xenomorfi con il loro raccapricciante immaginario.

Tornare ancora una volta a disturbare i morti nel vuoto siderale dello spazio dell’universo di Alien, dunque, non pareva cosa necessaria.

Le premesse questa volta, però, sono differenti. Il progetto non è più nelle mani di Ridley Scott, soltanto nel ruolo di produttore, ma è affidato invece all’uruguaiano Fede Álvarez, che ha già saputo riproporre per il pubblico contemporaneo un altro cult degli anni Ottanta con Evil Dead (2013), il quale regista non prosegue la narrazione iniziata da Scott con Prometheus.

Alien: Romulus desidera porsi come un back to basics che cammina nei passi del primo film della saga non solo narrativamente, come sequel diretto di esso, ma anche nell’approccio e nelle atmosfere, decisamente più affini al genere horror rispetto agli ultimi capitoli visti.

Come al solito, la figura materna al centro di un film della serie: l’archetipo della madre arcaica, che abbiamo già visto di recente tornare alla ribalta con Evil Dead Rise (2023, questo non diretto da Álvarez ma parte dello stesso franchise a cui ha dato il suo contributo qualche anno fa), torna a tormentare i sogni dei personaggi e degli spettatori che prendono parte all’universo diegetico creato da Ridley Scott.

La madre che minaccia di reincorporare il figlio, colei che è l’abisso, l’inizio e la fine della vita e della quale il mostro alieno con la sua forma fallica è la feticizzazione del fallo mancantele e l’agente castrante che invoca la terrificante fantasia della vagina dentata.

Ma a questo giro non ci sono navi aliene dalla forma dell’apparato riproduttivo femminile a suggerirla e posizionarla nell’impianto psicologico del film, dunque il regista necessita di creare un nuovo stadio nel ciclo di vita dello xenomorfo, una fase inedita prima d’ora mai vista.

Dopo la muta effettuata alla conclusione della fase denominata chestburster, l’alieno viene mostrato per la prima volta chiuso in un bozzolo dal quale uscirà una volta raggiunta la fase matura.

È nella forma inequivocabilmente vaginale della crisalide che viene evocata la madre arcaica, che dona la vita “partorendo” il mostro e attraverso lui dispensa la morte.

La madre arcaica (tramite il mostro alieno) assume il ruolo della madre animalesca nella triade Lupa-Romolo-Remo dell’episodio mitologico (come suggerisce il titolo del film), sebbene non con la funzione di portatrice di vita ma quella contraria di dispensatrice di morte (e castrazione).

Mentre i precedenti film della saga hanno sempre avuto come solo centro simbolico e tematico il rapporto materno-filiale, Romulus è anche e soprattutto un film sul rapporto di fratellanza. Non solo la stazione spaziale Renaissance è divisa in due moduli chiamati Romulus e Remus, ma i protagonisti sono tre coppie di fratelli, tra cui spicca come centrale alla narrazione quella di Rain (Cailee Spaeny) e Andy (David Jonsson), i quali, tanto quanto la madre arcaica, ribaltano l’archetipo dei gemelli nella triade mitologica.

I due infatti non sono gemelli, ma quanto di più distante vi possa essere, un maschio e una femmina dal diverso colore della pelle, ma soprattutto dalle diversissime origini “strutturali”. Andy è infatti un androide riprogrammato dal defunto padre di Rain per assumere il ruolo di fratello adottivo della ragazza.

È forse proprio il potere di questa diversità (dunque della diversity) che permette un epilogo diverso tra i due rispetto a quello tragico del mito.

Se lo spirito dei sequel a Hollywood è “più grande e più rumoroso”, Alien: Romulus centra sicuramente l’intento, aggiungendo anche un “più numeroso”. Álvarez ricattura infatti lo spirito del primo film, ma questa volta la minaccia non è così misteriosa e silenziosa. Xenomorfi multipli infestano la stazione e i personaggi si trovano a fuggire inseguiti da facehugger che spuntano da ogni dove.

Se poi c’è un merito da riconoscere a Romulus è quello di rimediare ai danni fatti da Scott con la sua ultima uscita nel franchise, recuperando concetti ed elementi introdotti in Prometheus e Alien: Covenant e integrandoli organicamente all’interno di un film che è il risultato della decisione di abbracciare totalmente il primitivo aspetto orrorifico della saga, non un ibrido mal concepito che cerca di conciliare due propositi differenti.

Rain (Cailee Spaney) e Andy (David Jonsson)

Sebbene indugi troppo in omaggi ai film precedenti (l’unica vera pecca di questo film), Álvarez ripropone con successo la tensione e l’atmosfera terrorizzante della pellicola del 1978, risultando in un ottimo ritorno alla forma e alle origini che fa sicuramente salivare 20th Century Fox e The Walt Disney Studio, consapevoli del rinnovato successo della saga che porta con sé il potenziale per ulteriori capitoli e più soldi da guadagnare.

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Alien: Romulus – Scritto e diretto da Fede Álvarez – Con Cailee Spaeny, David Jonsson, Archie Renaux, Isabela Merced, Spike Fearn, Aileen Wu – Anno 2024