Abendland è Occidente, Abendland è la terra del tramonto in cui – come scrive il poeta Celan – “noi ci diciamo cose oscure”, in cui “la bocca fa profezia” e l’occhio “scende al sesso dell’amata”. Sprofondiamo con “Le relazioni pericolose” di Carmelo Rifici nell’abisso controverso e contaminato della nostra memoria storica e godiamo – tra teatro, letteratura e filosofia – di quelle visioni nate tra i meandri delle menti più sordide e feconde che hanno animato l’Occidente, prima fra tutte il romanzo epistolare di Choderlos de Laclos che dà il titolo allo spettacolo, “Les Liaisons dangereuses”.
In altre parole: Abendland. Lì dove a tramontare non è soltanto il faro luminoso del Sole, bensì ogni vano moralismo, ogni spregiudicato anelito di razionalità; proprio lì si fa largo, tra le nostre troppo umane speranze, il volto più realistico e inquietante della nostra pretesa di umanità. E non è un caso, infatti, che intorno alla metà dello spettacolo con un richiamo (ormai frequente in teatro) alle installazioni di Damien Hirst, appaia la figura del lupo, impagliato e imprigionato in una teca di vetro trasparente, quasi a voler ribadire come la natura stessa di quell’essere umano – che ancora pretende di definirsi animal rationale – coincida, in realtà, con la scabrosa formula hobbesiana di homo homini lupus.
Ed è proprio a partire dalla radicale riflessione registica e drammaturgica di Carmelo Rifici – che firma il testo insieme a Livia Rossi – sul fatale destino del nostro umanismo, che ha inizio “Le relazioni pericolose”. Le pagine della storia – della nostra storia culturale – sono mostrate sulla scena come nude, ingiallite e dimenticate, al punto che non si sa più se quei libri siano diventati il rifugio di piccoli e ripugnanti insetti o se, piuttosto, non siamo diventati noi – kafkianamente – degli insignificanti insetti schiacciati dal peso della nostra stessa storia. Comunque stiano le cose, la potenza teoretica de “Le relazioni pericolose” si fa strada mediante un inizio pienamente filosofico.
Un nome dimenticato, quello di René Girard, forse persino condannato e di cui, nondimeno, sentiamo e leggiamo un brano tratto da “Portando Clausewitz all’estremo”, la cui forza si fa strada in appena due pagine proiettate sul fondo scena (grazie allo straordinario progetto visivo di Daniele Spanò che accompagnerà l’intero spettacolo); pagine sì scolorite ma ricolme di un pensiero fulgido, fecondo, immensamente radicale.
E così, immediatamente, a vedersi scorrere davanti quei contorti ragionamenti un dubbio terribile assale lo spettatore: e se quel male, quel duello, questa guerra, la nostra lotta quotidiana non fossero espressione di un morbo che parassita l’umano, ma piuttosto una sua premessa? Che ne sarebbe di noi se quel polemos facesse da terreno, da fondamento alla nostra stessa esperienza di verità, dell’altro, della reciprocità dell’amore e dell’amicizia?
Da qui in avanti, l’intero spettacolo ruoterà aporeticamente intorno a questa cavillosa domanda, ma a interessare Rifici non è forse tanto, in fin dei conti, la risposta filosofica al problema di qual è l’essenza della reciprocità nell’umano, quanto quella artistica del teatro, in cui la convivenza dei punti di vista – dalla drammaturgia sonora alla scrittura visuale – costituisce già di per sé una risposta sufficiente.
Nella dilagante crisi culturale che appesta la nostra società, questa raffinata macchina di corpi, suono, voci, immagini intende resistere alla tentazione di un’arte prostituitasi all’intrattenimento. Quello che vediamo sulla scena è, infatti, un corpo attoriale unito da un comune respiro artistico e proteso verso uno stesso intento: resistere. Una forma di resistenza che mette al centro della scena e di questa scabrosa vicenda non tanto il libertinismo di Laclos e Sade né, tantomeno, la volontà di potenza nietzschiana quanto, piuttosto, il problema della trascendenza: a dover necessariamente essere chiamati in causa sono, infatti, Teresa d’Avila, Weil e Dostoevskij.
In lotta tra loro due straordinari duellanti. A sinistra della scena, sinuosamente intenta a tessere le sue trame e a redigere lettere di machiavellica memoria, la Marchesa de Merteuil di Elena Ghiaurov. Imprigionata così in una sete tanto bruciante di potere da tramutarsi nel desiderio del nulla, verrebbe da credere che neppure Nietzsche in persona sarebbe stato capace di interpretare “L’anticristo” nel modo in cui è riuscita a fare Elena Ghiaurov.
Alla sua destra il bel ami Valmont di Edoardo Ribatto, espressione finale di un relitto di virilità amleticamente mancata, risvegliata da un desiderio di conquista ancora tutto moderno, eppure inesorabilmente prossimo alla crisi. La contraffazione del volto prende forma nell’apparente immobilismo del corpo dell’attore tanto che, prostrandosi davanti alla potenza della parola – soprattutto quella ‘impronunciabile’ di Artaud – riesce a raggiungere vette straordinarie, impensate.
Al centro della scena, poi, al fianco dei fanciulli Cécile de Volanges (Livia Rossi) e Danceny (Flavio Capuzzo Dolcetta) preda delle loro belle speranze, ecco apparire il celebre capro espiratorio: Madame de Tourvel (Monica Piseddu). E se per Girard il capro espiatorio aveva rappresentato l’espressione più autentica e originaria del rito pubblico, da cui far discendere anche la stessa tragedia, a essere celebrata qui sarà una catarsi post-moderna. Senza la pretesa di indicare la strada della felicità agli uomini – come avevano creduto i greci – questo capro espiatorio incarnato dalla donna devota, una volta precipitata e ingannata dal peccato, rimane a testimoniare, ancora una volta, l’unica forma possibile di resistenza di fronte al tramonto: l’ancoramento umano alla trascendenza.
Le relazioni pericolose – Teatro Vascello dal 18 al 23 aprile
drammaturgia Carmelo Rifici e Livia Rossi
ricerca delle fonti Carmelo Rifici, Ugo Fiore, Livia Rossi
regia Carmelo Rifici
Personaggi e interpreti
Marchesa de Merteuil Elena Ghiaurov
Madame de Tourvel Monica Piseddu
Visconte di Valmont Edoardo Ribatto
Cécile de Volanges Livia Rossi
Danceny Flavio Capuzzo Dolcetta
disegno sonoro Federica Furlani
impianto scenico Carmelo Rifici, Pierfranco Sofia
disegno luci Giulia Pastore
progetto visivo Daniele Spanò
costumi Margherita Platé
drammaturgia del corpo Alessandro Sciarroni
assistenti alla regia Ugo Fiore, Simon Waldvogel
costumi d’epoca realizzati presso la Compagnia Italiana della Moda e del Costume e da Giulia Alvaro, Margherità Platé
ricerca tecnologie audio e sonorizzazione Brian Burgan
disegno e realizzazione attrezzeria Matteo Bagutti
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
partner di ricerca Clinica Luganese Moncucco