«Riccardo III» al servizio di Kriszta Székely

Il teatro di Shakespeare, si sa bene, è di sana e robusta costituzione: regge pure in alta quota, là dove le montagne sono ispide rocce ricoperte di neve, e dove il gelo comprime gli intrighi di potere che si tramano in un ampio chalet con le travi di legno a sorreggere il soffitto, ma dove un cavallo difficilmente potrebbe correre in soccorso di qualcuno: nemmeno se a chiederlo fosse un re che per salvare la propria vita sarebbe pronto a offrire il suo regno. Parliamo dell’adattamento di Ármin Szabó-Székely del Riccardo III, tragedia del Bardo tra le più consumate in palcoscenico, per la regia di Kriszta Székely.

Ed è quindi lassù, nella roccaforte in cima ai monti, che la famiglia reale s’è riunita al gran completo per festeggiare l’incoronazione di re Edoardo. Ma siamo molto lontani dagli avvicendamenti tra le dinastie degli York e dei Lancaster. Quest’ultimo allestimento della tragedia – di matrice ungherese, in scena al teatro Quirino di Roma fino a domenica 21 – ci fa dimenticare anche le rivisitazioni ambientate durante la Seconda guerra mondiale, alle quali ci eravamo ormai abituati; e dove la regia era ancora al servizio del testo (malgrado qualche piccola variazione). Nel lavoro ideato da Kriszta Székely, invece, il testo è al servizio della regia, e l’adattamento diventa, in pratica, una riscrittura, che dell’originale conserva l’ossessiva bramosia di potere di Riccardo, la sua spietata malvagità, la sua abilità maligna. La recitazione, d’altronde, si avvale per lo più di un linguaggio contemporaneo d’ultima generazione: si incontrano anche i blog e le fake news, che però all’improvviso cozzano contro metafore e analogie tipiche del senso poetico shakespeariano, «il sole oggi non splende per non scorgere le lacrime», per esempio; ma ce ne sono altre, per fortuna, a ricordarci che stiamo assistendo a un classico del teatro.

Matteo Alì (Hastings) e Paolo Pierobon (Riccardo)

Se la regia s’è imposta sul testo, tanto da richiederne una sostanziosa riscrittura, agli interpreti, invece, sono state suggerite direttive opposte: rispettare quanto più possibile il carattere dei personaggi. Cosicché nessun attore si è «cucito» il personaggio addosso, ma ciascuno si è calato nelle vesti di un ruolo che potrebbe anche non appartenere alle sue possibilità. Il risultato di questo jouer le rôle è che non tutti i personaggi sono riusciti ad ammansire gli animi dei propri interpreti, quantunque il livello generale della compagnia resti di ottima qualità. Su tutti, la meticolosa prova di Paolo Pierobon, un Riccardo inedito e convincente che sin dalla prima battuta scopre (al pubblico) le sue carte di stratega del male; con gli spettatori dialoga di sottecchi sin dall’inizio cercando con diabolica scaltrezza il consenso del popolo; agisce in maniera subdola  come compete a chi cerca di accattivarsi le simpatie per una eventuale campagna elettorale. Il Riccardo di Pierobon, infatti, non è tanto un assassino usurpatore del trono, quanto un criminale politico affamato di potere. In lui non dimora mai l’animo di un sovrano, ma solo quello di un dittatore in cerca di sanguinose alleanze con Mosca, con Pechino, con Teheran, e pure con il coreano nordista (non sono supposizioni personali, ma chiare indicazioni dell’adattamento).

Oltre al protagonista è da segnalare l’evasiva raffinatezza dello Stanley di Nicola Pannelli che inizialmente sembra avvolto in una distrazione evocativa, ma scena dopo scena conquista con dolce empatia il calore del pubblico pronto ad applaudirlo calorosamente al finale del primo tempo, quando mostra le prove del complotto ai danni di Hastings: un’ingiustizia per la quale sinceramente soffre disgustato, ma a cui bisogna sottostare perché i giochi politici lo impongono.

Non può passare in secondo piano la performance di Manuela Kustermann, regina madre in tuta da sci rossa. Soprattutto nel finale l’attrice mostra l’impronta migliore: «Non è un paese per donne», dice, intendendo che la gestione governativa è ancora in mano agli uomini (chiaro che non siamo in Italia!), ma lei è anche genitrice consapevole delle sciagure di un figlio crudele, dal quale non si lascia intimidire, anzi, con lucida determinazione, sancisce l’inizio della sua fine riscattando in parte la situazione femminile di un paese senza bandiera. Ottima anche l’efficace caratterizzazione di Marta Pizzigallo, ex regina, vedova in pelliccia, isterica e gracchiante.

Tuttavia, finora abbiamo detto ancora poco sullo spettacolo, e questo, al contrario di altri, merita di essere scandagliato a fondo. Modificando tempo, luogo e linguaggio, nelle mani della Székely, la tragedia di Shakespeare diventa un pretesto intorno al quale poter costruire una nuova realtà. Non più il fascino del passato (remoto o recente che sia), non più la sacra immortalità dei personaggi, ma, in primo piano è il mondo che ci appartiene, quello che ci ha avvelenati con l’economia e la tecnologia, dove il comando diventa soprattutto potere d’immagine. Una telecamera, infatti, è sempre pronta a riprendere i momenti più significativi da trasmettere in diretta tv. I moniti al popolo sono divulgati tramite le edizioni straordinarie del tg. Le notizie false e tendenziose (quelle che servono per spianare la strada a Riccardo) sono affidate al passaparola dei social. Insomma tutto è sfacciatamente contemporaneo al limite di una sconveniente (per noi) indecenza, a vantaggio, però, di una violenta comprensione, quella che a volte si prova quando ci si scambia messaggi con il cellulare: ha più valore la velocità della parola. E con la stessa velocità e arrogante determinazione, Riccardo si libera dei suoi nemici accatastando i loro cadaveri su un lato della scena, che fa teatro a sé: un horror picture show ideato dalla mente di uno scellerato senza coscienza, perché la coscienza porta via tempo alla realizzazione della conquista del potere e «riempie l’uomo di impedimenti». Il Riccardo «ungherese» dimostra palesemente che per raggiungere l’agognato trono bisogna giocare d’anticipo, senza pensar troppo, senza valutare le diverse opportunità, e senza perder tempo occorre tirar dritto fino alla catarsi, quando il regno conquistato con la sola forza del male si ribella e disarciona il suo re, a cui non resta che evocare un cavallo che è una chimera. Purtroppo la battuta più famosa del Riccardo III, in questo rivoluzionato contesto, non trova un adeguato sostegno drammaturgico, tanto che il despota, in preda alla follia, è costretto ad aggiungere: «Dove l’ho sentita questa!». Quindi, al finale (secondo questo imprevedibile adattamento che non segue né l’autore né la storia), sarà Elisabetta, moglie di Edoardo, a diventare regina, affinché regni finalmente la pace, chiedendo però armi, mortai, fucili, bombe e razzi, perché soltanto un arsenale militare potrà proteggere la sua pace: diffusi esempi di attuali disturbi mentali che in epoca elisabettiana ancora non si manifestavano.

Postilla. Durante la rappresentazione gran parte del pubblico, e anche il sottoscritto, non s’è trattenuto dal ridere, malgrado le tragiche vicende. Le situazioni umoristiche create dalla regia hanno alleggerito molto il dramma antico, consentendo una maggior fruizione del dramma contemporaneo. Una signora ha tentato di rimproverare la platea: «Non c’è niente da ridere!» Ma forse preferiva astenersi dal ridere del nostro mondo.

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Riccardo III da William Shakespeare, adattamento Ármin Szabó-Székely, traduzione Tamara Török. Con Paolo Pierobon (Riccardo), Matteo Alì (Hastings), Stefano Guerrieri (Clarence / Arcivescovo), Manuela Kustermann (Cecilia), Lisa Lendaro (Anna), Nicola Lorusso (Catesby / Primo sicario), Alberto Boubakar Malanchino (Rivers / Secondo sicario / Tyrell), Elisabetta Mazzullo (Elisabetta), Nicola Pannelli (Stanley), Marta Pizzigallo (Margherita), Francesco Bolo Rossini (Edoardo / Presidente della Corte suprema), Jacopo Venturiero (Buckingham). Luci Pasquale Mari, suono Claudio Tortorici, video Vince Varga, scene Botond Devich, costumi Dóra Pattantyus, regia Kriszta Székely. Al teatro Quirino, fino al 21 maggio

Foto in evidenza: © ph. Luigi De Palma