Una vasta distesa di sabbia chiara è il luogo del passaggio dalla morte alla vita in “Resurrexit Cassandra” di Ruggero Cappuccio in scena al Teatro Vascello di Roma per la regia di Jan Fabre.
“Sul fondo, all’estremo di destra, la mano sinistra di una donna emerge dal suolo“
Le parole escono fluviali dalla sua bocca , la sua voce profonda, artefatta, proviene da un’altrove passato, i suoi organi dislocati su spazi differenti, si cercano, protesi a una nuova unità.
Il mio nome è Cassandra
L’emersione di Cassandra, figlia di Ecuba e Priamo, il suo estremo ritorno alla vita, si configura come ultimo tentativo di affermare una verità che mai è stata creduta.
Così come la terra che si attacca al suo palato è metafora per l’interferenza nel processo di recezione della profezia, lo è anche l’umanità che nel corso dei secoli non è stata in grado di ascoltarla.
Interpretata dalla solenne Sonia Bergamasco, la profetessa calibra il suo corpo e il suo volto sul movimento continuo e impercettibile: il corpo stesso diviene così nucleo evocativo per la tensione crescente che investirà progressivamente la scena.
“Il principio della morte fu nel bacio”
Fu Apollo a rendere la sacerdotessa, preveggente, fu lui stesso a sancire l’origine della sua maledizione e, per mezzo di uno sputo sulla bocca, a determinare la sua condanna.
L’esasperato baccano del rumore fuori campo dove i lamenti si sovrappongono al suono ferroso della spada, sono solo un’eco del chiasso che invade la mente della donna, una donna che ode e vede il passato e il futuro, ma che non può trasmetterlo al mondo.
La muta del serpente come innesto del rito profetico
Unici oggetti di scena distribuiti fra proscenio e fondale, i serpenti lignei divengono strumento necessario alla trasformazione della sacerdotessa. Presentandosi come passaggio di un ininterrotto rituale, l‘interazione con l’oggetto diviene passaggio essenziale per la formulazione profetica.
Toccando fisicamente la materia del serpente, la sacerdotessa è in grado di assorbirne la natura, di mettere in atto la propria muta, togliendo progressivamente dal proprio corpo uno strato, un vestimento.
Il movimento, reiterato più volte nel corso della narrazione diventa simbolo della progressiva rinuncia alla menzogna. Menzogna come addobbo superficiale e velo che impedisce agli occhi dell’uomo di afferrare il vero.
Parallelamente, la stratificazione di abiti che avvolge il corpo della donna appare la metafora dello scavo oltre la superficie del reale. Solo il suo compimento permette allo sguardo umano di predisporsi all’ascolto della profezia che di lì a poco sarà rivelata.
La natura e la iubris umana: dal racconto alla condanna
In origine la profezia di Cassandra si rende manifesta nella rievocazione del ricordo, nel racconto vivido delle infinite visioni che la mente della figlia di Priamo ha nel tempo sopportato; in un secondo momento tale narrazione si ribalta.
Non più testimone passivo della rivelazione ma parte attiva, l’umanità viene chiamata in causa e sottoposta a giudizio: la sua iubris ha distrutto la terra, la ha resa palustre, marcescente.
Ponendosi al di sopra della natura, credendo erroneamente di poterla sfruttare senza riserve, l’uomo ha dato origine alla sua colpa. Non più una colpa subita dagli dei, un fato avverso, ma una macchia che l’uomo stesso ha posto su di sé travolto da una feroce insensatezza.
Articolando la voce entro un flusso cruento e immaginifico, l’attrice plasma per Cassandra un nuovo volto: nuova profezia intrisa di un’attualità straziante, quella della morte della natura, non lascia spazio ad assoluzione.
La Cassandra che riemerge dalla terra, che mangia la terra, è ora personificazione della Terra stessa, della terra che rivolge all’uomo il suo grido d’aiuto.