Al teatro Marconi di Roma si sono concluse le repliche di “Regine di Cartone”, testo di Marina Pizzi, regia di Silvio Giordani e tre interpreti eccezionali: Angiola Baggi , Mirella Mazzeranghi e Maria Cristina Gionta
Il testo è intenso. In scena tre barbone che sembrano muoversi attorno a qualcosa di invisibile eppure ingombrante, forse un fuoco che non scalda con su un calderone in cui la vita ribolle senza nutrirle. Ribolle. Affiora e affonda. Torna ad affiorare. Torna ad affondare. Ribolle. E loro sembrano streghe shakespeariane che danzano sotto la luna al ricordo dei dolori del passato: squarci di luce tagliente che sono costrette a spegnere. I ricordi sono abili gabbiai.
Randagie senzatetto si muovono in un ispido sottobosco sociale. Sono avanzi di vita che camminano lentamente, a volte zoppicando, che riempiono l’aria del mondo cercando con affanno qualcosa che non trovano; sono figure nella galaverna; sono cani che si mordono la coda e vivono all’ombra di un perdono impossibile, di una santità vicina e pur lontana, un convento di suore, forse una sorta di Paradiso che le fa sentire in un Purgatorio simile all’Inferno.
Non conoscono, però, l’urgenza etica dei derelitti di Orwell o di Steinbeck. No. In scena c’è un qui e ora, una storia che è una non-storia, in realtà, un semplice spaccato di vita che non lascia spazio a denunzie, ma solo a constatazioni. Non è il filisteismo degli esseri umani a preoccupare; neppure la loro violenza spaventa più di tanto. L’unica urgenza sembra quella di scansare le proprie asperità trovandosi reciprocamente. Sono tre donne che imparano a conoscersi, ad amarsi, ad essere una famiglia attraverso l’eclissi esistenziale, attraverso un dialogare babelico, flusso costante, a tratti pauroso: le espressioni fiorite di Ruvida, il periodare privo di senso di Tonta, e l’albagia dei frammenti teatrali di Gina. Parole. Parole che s’incontrano nella loro diversità, perché conducono tutte nello stesso luogo interiore, nel cuore delle tenebre. Non quelle della città, della società, della politica, del Popolo dell’abisso descritto da Jack London, ma quelle dell’essere umano spaccato eppure intero: ogni pezzo un essere a sé, come accade guardandosi in uno specchio rotto. A volte la vita è l’equivalente morale della guerra. Ed è qui che s’innestano i due camei linguistici di quest’opera: l’anacoluto e il palindromo. Tonta esclama d’essere un anacoluto e sogna il palindromo. Nell’artificio verbale si richiama il gioco ad effetto della retorica classica. Il primo infrange la regolarità sintattica, proprio come le protagoniste di questa non-storia infrangono la “normalità”; il secondo definisce quelle parole che possono essere lette in entrambi i sensi, proprio come il tempo che scorre in quel luogo di abbandono scrive parole che hanno un senso se lette con gli occhi del presente e un senso diverso se lette con gli occhi del passato.
A dispetto dei colori sgargianti che dominano la scena, quelli delle cassette di plastica, dei tappeti consunti, delle maglie stese alla buona; a dispetto del rosso che tinge la loro vita, quella di Tonta, con le sue scarpe piene di segreti e, forse, di significati sociali, con il nome del suo bar e il sugo che ama tanto, quella di Ruvida, con il suo rossetto indossato non già per attrarre ma per nascondersi, quella di Regina, con le sue fiamme nel cuore; a dispetto di tutto ciò in scena sale il buio dentro. E non ce l’hanno solo i barboni. È una prerogativa di tutti. L’unica vera livella, come direbbe Totò, perché c’è un po’ di morte nel buio interiore, c’è l’inconoscibile dramma che si nasconde nei meandri dell’anima ove risuona l’eco insistentemente inascoltata di ciò che non si vuole far esistere. Ed ecco le cuffie, che «funzionano anche quando non funzionano» e sanno isolare dai rumori del mondo, sanno proteggere, proprio come una maschera protegge il volto dalle sue stesse ombre, come un sorso di alcol e il suono di una risata proteggono dalla notte interiore, come una carezza protegge dal clivaggio esistenziale, come coriandoli fatti di soldi proteggono dalla realtà e come una menzogna protegge dall’edace verità.
«Mica è vero, mica è vero … E, poi è successo un milione di anni fa».
La verità cambia con il tempo?
La luce bluastra racconta la notte, ma anche il sogno. Del resto i sogni sono tali anche quando si trasformano in incubi. Gina (Angiola Baggi), Tonta (Mirella Mazzeranghi) e Ruvida (Maria Cristina Gionta) sembrano muoversi in una dimensione onirica, sì, ben sottolineata dalle musiche del Maestro De Meo, sempre profondamente poetico.
È un percorso psicologico molto intenso, il loro. Ricordano le tre Marie: Maria di Magdala, Maria di Cleofa e Maria di Nazareth. Donne che piangono la morte sotto una croce, donne che piangono se stesse per aver amato. Un viaggio nel sottosuolo, lo definirebbe Dostoevskij.
La Baggi, la Mazzeranghi e la Gionta si calano perfettamente nell’abisso. Senza paura, senza tremare. Vanno così a fondo che la lama del dolore, dell’incomprensione, del rifiuto entra nel pubblico. Raccontano l’abisso dall’interno. E questa non è recitazione, ma interpretazione ad altissimi livelli.
C’è anche tanta regia dietro. Si vede. Silvio Giordani ha creato il coro, ha messo in moto il metronomo di un dialogo perfetto. Battuta dopo battuta, parola dopo parola, in un climax emotivo ora ascendente e ora discendente che aiuta il pubblico a prendere lo stesso ritmo, entrando in scena con il cuore.
Il cuore. Già.
Commuove, questa pièce.
Assolutamente da vedere.
Regine di cartone di Marina Pizzi – Regia di Silvio Giordani – Con Angiola Baggi, Mirella Mazzeranghi e Maria Cristina Gionta – Scene Mario Amodio – Costumi: Lucia Mariani – Musiche: Stefano Di Meo – Disegno luci: Marco Marini – Foto di scena: Tommaso Le Pera – Teatro Marconi dal 7 al 17 novembre 2024
Foto di copertina: Mirella Mazzeranghi, Angiola Baggi e Maria Cristina Gionta