Aneddoti e appunti di viaggio a due passi dal confine cinese
La prima volta che sono andato a Hong Kong, definita come la “New York asiatica”, è stato durante la Pasqua del 1975, lo stesso anno della scomparsa del generale dissidente Chiang Kai-shek, che aveva realizzato l’indipendenza politica dell’isola di Taiwan dalla Cina divenendone poi Presidente.
A Hong Kong ci arrivai con due inviati del Corriere della Sera: il giornalista politico Giampiero Rossi e il fotoreporter Dino Jarach, per un reportage su quella megalopoli, autentico incrocio tra culture diverse e un connubio tra tradizione e modernità che ancora per un certo numero di anni mantenne lo status di colonia britannica, schiacciata dal mare di Macao, protettorato portoghese fino al 1999.
Dalle finestre del mio appartamento nel modernissimo Hotel Mandarin si scorgeva in lontananza Canton, la prima città della Repubblica Popolare cinese, circondata da filo spinato e torrette di controllo presidiate dai soldati di Mao, visibili ad occhio nudo.
Era quasi impossibile trovare casa a Hong Kong, una città stato, stupendamente avvolta dai misteri della storia, dalle cronache dell’epoca, dagli intrighi internazionali, dalle spie, da affari di ogni genere, ma anche da un’euforia che invadeva tutto e tutti. Fra le strade, nei negozi, nei teatri, nei casinò fra banche d’affari, risciò e Rolls Royce, il tutto protetti dal bel volto e dalla bandiera di S.M. la Regina Elisabetta.
Si percepiva già il fiato di una Cina vicina (e qui Bellocchio non c’entra…), come mi confermò Pat Fok, un’affascinante fotografa di Pechino, figlia di un’oligarca dell’epoca che andava e tornava nella sua grande residenza con una incredibile facilità. Fu lei che mi propose di occuparmi di un’eventuale pubblicazione in Italia di un suo libro di fotografie dal titolo Faces of China:Tomorrow, today, yesterday, destinato a illustrare alcune bellissime località di un paese dove allora era difficilissimo immaginare di poter andare in vacanza come turista. Quel libro, poi riuscì a farlo pubblicare sia in America che in Italia.
Alitalia allora era il nostro vettore ufficiale che inaugurava la cosiddetta “rotta della seta” ovvero un jumbo 747 da Roma a Hong Kong con scalo ad Atene, New Delhi, Bangkok e Tokio. Il nostro “chaperon” in loco era il dottor De Dominicis, direttore degli uffici Alitalia, e in quella vigilia di Pasqua giunse la notizia della morte improvvisa del generale Chiang Kai-shek e i miei due compagni di viaggio mi lasciarono per volare a Taiwan.
De Dominicis e la sua fidanzata cinese mi invitarono a pranzo per una gita il lunedì di Pasquetta sicuramente il più “asiatico” della mia vita.
Nel frattempo la direzione del Mandarin, mi informò che essendo l’unico italiano potevo come cattolico assistere a una funzione religiosa celebrata da una sorta di sacerdote che, vestito con una improbabile tunica color aragosta, somigliava più a un monaco buddista che a un prete!
Alla fine decisi di avventurarmi a piedi alla scoperta di Hong Kong, non senza mettere in tasca un biglietto con una serie di diciture nei vari dialetti cinesi che mi sarebbero tornate utili per ritornare in albergo con il taxi.
Mi tuffai fra strade e vicoli, volti, odori e colori in un tour mozzafiato fra le rive della baia più spettacolare del mondo, un caleidoscopio di vetrine dei negozi, bancarelle, mercati piene di fascino misterioso in un habitat che sembrava costruito dagli scenografi di un film di James Bond.
Il lunedì di Pasqua poi fu la vera indimenticabile sorpresa di quel viaggio. De Dominicis mi venne a prendere con la sua auto e la fidanzata in hotel per una gita “fuori porta”, come se fossimo a Roma, scoprendo che anche quei cinesi di Hong Kong, cattolici e non festeggiavano come da noi.
Fu così che scoprii una lunga striscia di terra sul mare della Cina che chiamavano “i nuovi territori”, dove in un tipico ristorante adagiato su un mare di gusci di ostriche, pranzammo parlando di cosa sarebbe accaduto di li a qualche anno dopo, quando la Gran Bretagna avrebbe “riconsegnato” Hong Kong alla Cina.
“Ve lo anticipo io: Il futuro è fantascienza cinese”, titolava qualche giorno fa in un suo editoriale su Repubblica Giuliano Aluffi, pubblicando una lunga intervista con lo scrittore cinese Liu Cixin, il più visionario degli scrittori asiatici, autore del bestseller ll problema dei tre corpi, da cui è stata appena tratta una fortunata serie tv su Netflix.
Liu Cixin, definito dal New Yorker l’Artur Charles Clarke cinese, parlando del suo libro fra realtà, fantascienza e tradizioni perdute, sosteneva che l’idea gli era venuta assistendo a una partita di calcio a Pechino tra la Sampdoria e la nazionale cinese. «Come scrittore mi piacerebbe che l’umanità facesse piani a lungo termine per lo sviluppo della civiltà e ne la Cina, ne l’occidente hanno mai pianificato questo su un arco di tempo più lungo ad esempio un secolo. Attraversano il fiume sentendo le pietre come diciamo in Cina».
Il futuro, aldilà delle capacità degli esseri umani di ieri, di oggi, di domani, come il titolo guarda caso della mia amica fotografa, funziona solo nella fantascienza e qui se volete sapere perché, dovete per forza comprare il bel romanzo di Liu Cixin o vedere la serie televisiva.
Ma com’è la Hong Kong di oggi? Al di la delle considerazioni politiche che hanno visto la fine della gestione inglese, territorio libero sotto la bandiera britannica e del giudizio sulle lunghe proteste di migliaia di giovani cinesi contrari al nuovo regime; Hong Kong non ha più la stessa cornice di mistero, romanticamente avventurosa alla Casablanca, con Bogart e la Bergman. Malgrado tutto, per i nuovi turisti che ormai a migliaia visitano la Cina, spettacolare palcoscenico di un mondo come dice Liu Cixin che ha bisogno di tempo per cambiare. Certo che per il vecchio cronista che scrive, quel lunedì di Pasqua del 1975, resta un ricordo indelebile di un’irripetibile esperienza di vita.
Foto di copertina: Lo skyline di Hong Kong