Scene da un romanzo dove la botanica rivela prospettive di vita inedita
Quando una storia sa attingere l’universale non sono più i confini geografici a connotarla. C’è tanta Europa in questa bella versione teatrale de “La vegetariana”, adattamento dal romanzo della scrittrice premio Nobel Han Kang, edito da Adelphi. C’è il corpo scarnificato del Primo amore di Matteo Garrone, la tensione esplosiva delle sorelle di Von Trotta, echi di Pina Bausch, la rarefazione preziosa della cultura di Radio 3. Ci sono riferimenti e suggestioni pittoriche nell’inconfondibile regia di Daria Deflorian, angoli di Balthus che rovesciano nelle maschere tragiche di Schiele, esplosioni di orchidee alla Georgia ‘o Keef, profili dilatati di macchie mongole sullo sfondo di un materasso che se Hopper avesse disegnato una discarica assomiglierebbe all’angolo di muro dove è appoggiato.
Lo stesso angolo nel quale si consuma una sessualità nevrotica, sempre più negata e assieme sorprendente, nell’atropia quasi metafisica del corpo della protagonista che si estende al corpo della coppia stessa, a quello di un uomo che dichiara esplicitamente la mancanza di uno sguardo rivolto al proprio interno, omissione che va ad alimentare l’anoressia sentimentale di un matrimonio apparentemente scelto per comodità e convenzione, ma i confini del quale sconfinano rapidamente in una spirale d’incubo, avvitata in volute sempre più strette e paradossali, che costringe alla profondità degli antefatti familiari dove è incubata la deflagrazione prossima. Come nel film Parasite, questo sì, coerente al territorio di provenienza del testo originario, le relazioni familiari e i loro antefatti violenti danno luogo a un gioco delle parti dove la rappresentazione artistica, intra e meta testuale regalano spazi di leggerezza allo spettatore, perfino di seduzione, quella qualità di leggerezza che non sfugge al confronto spietato con le cose e dunque solleva la catarsi.
Il vegetarianesimo della protagonista è una scelta estrema, più esistenziale che ideologica, che vuole estendersi a ogni declinazione della carne, quella del sesso, del sangue che lega i componenti di una famiglia, le sue ragnatele di vene e ossa. La tela di ragno dove il dolore più vicino è deliberatamente trascurato e strumentalmente fatto pasto. L’intimo indicibile che diventa proiezione furibonda e autolesionista di denuncia alla violenza del mondo fuori. Crinale che conduce a trasformazione kafkiana, assoluta, modificando quasi la genetica del corpo.
C’è invenzione linguistica negli inserti in stile trattamento cinematografico, nell’intestazione tecnica di ogni scena, nella traduzione luminosa in inglese che il Teatro Vascello opera per il Roma Europa Festival, confermandosi uno dei pochi polmoni di respiro internazionale nel cuore capitolino.
Grazie al talento di sottrazione che diventa di per sé ironia operato dagli ottimi e ottimamente diretti attori, la stessa Daria Deflorian, Monica Piseddu, Paolo Musio, Gabriele Portoghese, le due ore di dramma scorrono rapide e gustose: è teatro, come raramente accade ottimamente adattato da ottima letteratura, a dimostrazione che i territori dell’anima, infusi di serietà e privi di furbizia, sanno creare universi nei quali sale strapiene si immergono senza riserve e volentieri. Altezza di respiro, dunque, malgrado l’asfissia.
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La vegetariana – Scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024 – Regia Daria Deflorian – co-creazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese – aiuto regia Andrea Pizzalis – scene Daniele Spanò – luci Giulia Pastore – suono Emanuele Pontecorvo – costumi Metella Raboni – consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato collaborazione al progetto Attilio Scarpellini – direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli – stagista Blu Silla – Teatro Vascello dal 29 ottobre al 3 novembre