«Pupa e Orlando», ossia la bella follia di Giuseppe Fava

Il testo del giornalista, ucciso dalla mafia nel 1984, è uno studio per attori esperti, un gioco teatrale per estro musicale

Il personaggio di Pupa dice: «Morirò come una cosa inutile, ma quando morirò vorrei che ci fosse qualcuno accanto a me». E poi ancora si domanda: «Quanto vale la vita di un uomo?» Giuseppe Fava, autore del testo, era un giornalista, fondatore e direttore de Il Siciliano, giornale antimafia. Fu ucciso quarant’anni fa, il 5 gennaio 1984 a Catania. Cinque proiettili lo colpirono alla nuca. L’omicidio fu immediatamente catalogato come delitto d’onore, perché «a Catania – disse il sindaco – la mafia non c’è». In Pupa e Orlando, spettacolo visto al teatro Lo Spazio di Roma, la mafia non c’è, non si vede, non se ne sente l’eco, eppure le due frasi, pronunciate dalla voce maschile di Pupa, suonano come una campana a morto in ricordo dell’autore che fu un grande giornalista mai dimenticato.

Il copione scritto da Fava, al sapor di favola, è una vera primizia: è un gioco teatrale, uno studio animato sul carro di Tespi, un banco di prova per attori esperti. È uno di quei testi che, qualora fosse proposto da interpreti mediocri, non reggerebbe più di due minuti. Invece, la follia scenica funziona proprio perché Claudio Pomponi e Marco Aiello sembrano lasciarsi travolgere dal ciclone Fava in una storia declamata più che narrata, arringata più che recitata, insomma sembra un «antiteatro nel teatro». Per carità – intendiamoci – di follia si tratta, ma è una follia guidata da un estro musicale popolare che traspare da parole e situazioni: c’è il minuetto, la rumba, la ciaccona, un’improvvisa tammurriata che finisce con una sviolinata, insomma testo e recitazione sono perfettamente combinati e bilanciati sia nei toni che nei ritmi. Di musica effettiva ce n’è pochissima, eppure, quando gli interpreti sono bravi e c’è una perfetta intesa, il gioco riesce.

Claudio Pomponi (Pupa) e Marco Aiello (Orlando)

Si tratta di una vicenda amorosa tra una puttana e un menestrello, ovviamente d’origine siciliana: lei martire, lui ladro e pappone, insieme girovaghi e avventurieri. Pupa offre il suo corpo, Orlando la sua arte. Lei è innamoratissima di lui e lui ne approfitta, tant’è che litigano furiosamente a ogni contraddizione. C’è anche la storia di Michele, il figlio morto di Pupa, che tormenta le angosce della donna. E c’è tanto altro che a volte – si dice – «scappa dal controllo dell’autore» perché Pupa e Orlando, in effetti, sono le anime inquiete dei personaggi scacciati da Pirandello, o quelli che non hanno trovato posto a sedere nella sua sala d’attesa. Povero don Luigi, lo immagino mentre osserva Pupa e in cuor suo si augura di non aver a che fare con lei, una pazza, il cui impeto tanto somiglia a quello della Figliastra; e poi, così vittima e discinta!

Tuttavia, proprio Pupa, grazie al travestimento di Claudio Pomponi, ha maturato una modernità insospettabile che la rende molto più credibile di Orlando, un autentico sfruttatore d’altri tempi, un caratterista del parassitismo rimasto legato alle radici della sua terra. Lui, uscito dalla penna di Verga, mentre Pupa s’è evoluta e sembra essere passata al setaccio di Pasolini: anche l’accento romano l’avvicina al mondo delle borgate. Un incontro tra due creature prettamente teatrali, che rispetto a quei ragazzi di vita, di realistico non hanno nulla e né pretendono d’essere accolte dalla realtà.

Però… sì, c’è un però che suona come un imperativo. Il personaggio di Orlando esprime un desiderio: «Ci vuole un buon regista.» Ecco il senso del però: e fa piacere che lo dica un personaggio, il quale evidentemente sente il bisogno di una figura di prestigio che lo osservi e che gli suggerisca le indicazioni migliori. Fare il regista e fare l’attore son due mestieri ben diversi. L’attore soddisfa il personaggio per il corpo, per la voce, ma poi occorre un occhio esterno: e questo il personaggio lo sa bene; anche meglio di tanti attori!

In uno spazio particolare, come quello che offre Manuel Paruccini, bisognerebbe pensare attentamente a come valorizzare uno spettacolo, tante possono essere le possibilità. I menestrelli vanno per via, di piazza in piazza, e là, dove s’apre uno spazio, costoro esibiscono il loro bagaglio artistico, non davanti a una platea, non su un palcoscenico (perché non possono viaggiare con un palcoscenico appresso), ma giù nella piazza, nello slargo: nella platea. Il pubblico, per l’occasione, potrebbe usufruire del doppio palcoscenico, rimanendo al di sopra degli attori. Solo in questo modo le arringhe di Orlando, guardando dal basso verso l’alto l’eccellenza di turno, acquisterebbero la giusta enfasi, l’autentica credibilità. Anche le puttane battono la strada: tutto il gioco, tutta la truffa, si svolge nella parte bassa, come al circo, come in piazza.

Invece, così come proposto, la follia di Fava resta imbrigliata in uno spazio scenico ordinario, dove anche i continui flash di una fotografa disturbatrice hanno rovinato finanche le atmosfere più delicate. C’è stato un momento poetico in cui, nel buio, la mano di Pupa cercava di accarezzare, in un raggio di luce, l’anima del figlio morto: sarebbe stato un momento di forte emozione se non fosse stato disturbato dai bagliori della disturbatrice inopportuna che ha sparato quattro, cinque, sei flash a ripetizione uccidendo il piccolo Michele per la seconda volta. Uno scandalo di insensibilità. Povero teatro, trattato sempre più come un campo di calcio, anche quando meriterebbe miglior sorte, e non soltanto due giorni di repliche!

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Pupa e Orlando di Giuseppe Fava, diretto e interpretato da Claudio Pomponi (Pupa) e Marco Aiello (Orlando). Teatro Lo Spazio, 1 e 2 febbraio

Foto di copertina: Claudio Pomponi e Marco Aiello in «Pupa e Orlando» di Giuseppe Fava