Per uno come me cresciuto a pane, teatro e jazz è difficile non ricordare Chet Baker, un personaggio poliedrico che non ha mai smesso di incuriosire, ispirare e affascinare a più di 30 anni dalla sua morte quando il suo cadavere venne ritrovato sotto una finestra di uno squallido alberguccio di Amsterdam. Suicidio? Incidente? Non lo sapremo mai. Le legende metropolitane si rincorrono dietro la sua fine.
E il 21 maggio, Chet Baker venne sepolto nel cimitero di Inglewood Park, un sobborgo di Los Angeles, la città che gli ha regalato gloria e successo. Ma chi avrebbe potuto immaginare una simile fine trentaquattro anni prima?
Figlio di un chitarrista country fallito, violento e alcolizzato e di una madre inadeguata, nato e cresciuto a Yale nello stato americano dell’Oklahoma fu scoperto nei primi anni ’50 da Charlie Parker, il suo successo esplose nel 1954 quando fu nominato miglior trombettista jazz americano. La sua versione di My Funny Valentine incisa nel 1956 dove canta mentre suona la sua mitica Martin Committee ha superato la prova del tempo.
Nato all’alba della “Grande Depressione”, Chet appartiene a quella generazione che vide la distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki, un fardello pesante da portare che segnò in maniera profonda anche la sua visione del futuro.
Nel giorno del suo tredicesimo compleanno il padre gli regalò una tromba e in quindici giorni ne prese il totale controllo, riuscendo da predestinato qual’era a replicare nota per nota l’assolo di Henry James altro virtuoso della tromba, di fronte alla famiglia basita. E non fu fermato neanche dalla rottura di un incisivo, cosa che per un trombettista qualsiasi avrebbe significato appendere la tromba al chiodo. Lui trasformò quell’handicap in un nuovo stile. Niente alti ma solo registri medi e bassi.
Dotato di una volontà soprannaturale, rifiuterà sempre di imparare seriamente a leggere la musica – “Studiare va bene per coloro che non hanno né orecchio né creatività“, dirà -, sbalordendo i vari direttori d’orchestra in cui suonerà, dalla sua capacità di memorizzare qualsiasi partitura in un lampo.
Quando gli chiedevano quando aveva il tempo per esercitarsi lui rispondeva disarmante “Quando sono sul palco”.
Alla continua ricerca di una via d’uscita da un’esistenza complicata segnata da alcol e droga che riuscì a trovare solo in parte nella magia della musica, quella musica che gli consentì anche se in parte di riconcialiarsi con sè stesso
E sarebbe troppo facile incasellarlo nel solito cliché dell’artista maledetto. L’iconografia gioca un ruolo importante nel descrivere un musicista dal volto ammaccato dagli eccessi, da una vita da angelo primitivo e che gli valse il soprannome di “James Dean del jazz”. Se Miles Davis era “il principe delle tenebre”, Chet Baker era un angelo caduto. Un angelo fragile sempre in bilico tra paradiso e inferno, fino a quell’ultima discesa che si concluderà ad Amsterdam con una caduta fatale dal secondo piano di quel misero hotel. Era il 13 maggio del 1988. Da quel giorno la Martin Commette di Chet non suonò più.