La crudeltà grottesca di Ruccello
Quando si parla di Ferdinando, di recente di nuovo in scena all’India, si parla sempre del ‘capolavoro di Ruccello’. Difficile dire, e non so se non sia in realtà un testo sopravvalutato. Ma forse nel suo oscillare isterico e grottesco tra il Feydeau della pochade e le perversioni di Jean Genet, il suo ritmo da comica tammuriata oscena apre le porte alla svolta tragica del vero capolavoro di questo autore, purtroppo morto giovane, Anna Cappelli. In quasi tutti i testi di Ruccello infatti l’amore è un gioco grande tra anime piccole, un fuoco di frustrazioni che si conclude con la morte, ma mai questo assurge alle vette tragiche della protagonista di Anna Cappelli, dove la sconfitta permane sì, ma si converte nella tragica rivalsa del delitto cannibalico, dove non solo l’amante è punito, ucciso, ma anche incorporato, in una appropriazione allucinata e definitiva.
La storia in Ferdinando segue invece un andamento inizialmente freneticamente comico e di costume, diverso dall’amaro intimistico delle prime opere, e non ancora tragico come l’ultima. E i personaggi si scolpiscono in un delirio caricaturale frenetico, sessuale in modo volgare e spinto che travalica il realismo. In tal senso la pochade, che ha come caratteristica di muovere intrighi amorosi frenetici, colpi di scena ad effetto, ma soprattutto di attingere a piene mani dai personaggi volgari e burleschi del vaudeville. Feydau dunque, qua tinto di una frenesia alla De Simone, da Napoli boccaccesca, da Gatta cenerentola e Cunto de li cunti.
La storia è semplice, e in minore, comicamente, gattopardesca.
La baronessa Clotilde, inacidita vedova di mezz’età, come il Principe di Salina insofferente verso i parvenu del nuovo dominio sabaudo, si rinchiude in casa, sempre a letto, come un nevrotico e persecutorio malato immaginario, tormentando con le sue geremiadi la cugina povera che le sta in casa come serva, Gesualda. Questa del resto appare rigida e malmostosa, ma segretamente ha un commercio sessuo amoroso col prete, a sua volta forse figlio bastardo della casata. Tutto precipita poi però, capovolgendo ogni ruolo, in un vortice di seduzioni quando un nipote della baronessa, orfano le viene inviato in affido.
Costui, Ferdinando, con grande sfacciataggine circuisce e seduce baronessa cugina e prete, innescando una girandola di comiche della gelosia e del sotterfugio, che sfocerà nel complotto delle due donne, complici nel togliere di torno almeno la concorrenza omosessuale. Il prete. Anche qui, l’eccesso. Il prete, amoreggia con Gesualda, ma anche, si saprà, col sagrestano. Ed infine trascura tutti per il folle innamoramento per Ferdinando.
Le due donne lo avveleneranno, riuscendo a fingere il suicidio dettandogli una lettera di confessioni al vescovo. Tutto un tragico inutile. Ferdinando si palesa a questo punto essere un impostore, figlio del notaio (che già possiede tutte le ipoteche della baronessa), il cui unico scopo era impadronirsi del cofanetto segreto dei gioielli, a sua volta un furto operato dalla baronessa.
Troppa roba.
Sesso. Amore. Denuncia sociale sul degrado dei potenti. Frode ed omicidio. E tra le righe la perversa dialettica servo-padrone come lumeggiata in Le serve di Genet, con una Gesualda che ambisce a farsi signora.
Certo, negli anni ottanta del tramonto della rivoluzione, un testo a suo modo coraggioso, pur nella comicità, che ficca le dita negli occhi all’ottuso perbenismo dominante, dissacrando classi alte e clero, travolti da edonismo, arrivismo, invidie, rancori, stridenti nella cornice del loro conservatorismo cocciuto e fragile.
Tuttavia nulla decolla veramente, o è veramente approfondito.
Ferdinando non è un raffinato seduttore settecentesco: vince facile e immediato, esibendo carne e gioventù. E le sue vittime, benché alla fine si tenti di girarla sul sentimento, non sono veramente innamorate. Solo infatuate di una superficiale illusione carnale e di giovinezza, al contempo piacere e rivalsa sugli altri.
E quando arriva la morte, frettolosi sono il tentativo del lutto, la ferita del tradimento, la mestizia con cui Clotilde accusa Ferdinando di non avere ricordi (cioè valori).
Il prete muore dicendosi ucciso dall’amore, ma più convincente è la catarsi beffarda con cui chiude Clotilde, prima di refluire nel vecchio ruolo di malata immaginaria.
Conscia dell’assurdo e del ridicolo della faccenda, esclama “Non si chiamava Ferdinando!”.
Si era dunque innamorata della carne o del nome borbonico?
Sabrina Scuccimarra, la mattatrice dello spettacolo, lo recita alla grande, esplodendo in una risata isterica e senza freni, e alzando le braccia aperte, fiammeggiante e quasi riversa all’indietro, come posseduta e travolta dalla rivelazione dell’assurdo.
La mattatrice. Sì.
Fin da quando all’inizio occupa dispotica il suo letto-trono, la Scuccimarra è una fiumana di capriccioso cicaleccio napoletano, dal ritmo travolgente, tra pause ed impennate comiche, riprese, con fusione perfetta a mimica facciale e gestualità, mentre altrettanto abile la comprimaria, Gesualda (Anna Rita Vitolo), le si muove attorno, musona e inviperita, rigida come una scopa, e col volto di pietra, scaricando abilmente tutti i nervi nell’agitazione elettrica con cui le mani rassettano la coperta sul letto, o piegano il bucato.
Il loro duetto prosegue con mille mutazioni, accensioni, impennate, e regge alla grande tutto lo spettacolo, che – va detto, fatta la tara su quanto eccepito al testo – fila alla grande, tenendo incollato il pubblico, senza cali nel ritmo, facendo sì che il tempo voli.
Uno spettacolo d’attori, in cui anche Cirillo dà degno contributo, incarnando bene le sofferte altalene interiori del prete, tra colpa ipocrisia amore.
Più di riempimento, ma decorosamente provocatorio ed insinuante, Ferdinando(Riccardo Ciccarelli), non per colpa dell’attore, ma per come è disegnata nel testo la parte.
La regia, sempre di Arturo Cirillo, è un po’ statica nell’impianto scenico, anche se buona è la trovata di controscene parallele laterali, che fanno incombere il non detto e non visto in contemporanea controcoscienza per il pubblico.
Ma se gli attori funzionano così, ed il ritmo incalza perfetto, anche questa non è solo virtù attoriale, ma disegno di regia, direzione d’orchestra.
E la direzione d’orchestra qui funziona alla grande, ed il pubblico risponde entusiasta.
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Ferdinando, di Annibale Ruccello – regia Arturo Cirillo – con Sabrina Scuccimarra, Anna Rita Vitolo, Arturo Cirillo, Riccardo Ciccarelli – scene Dario Gessati – disegno luci di Paolo Manti – costumi Gianluca Falaschi – musiche Francesco De Melis – Teatro India, 1-6 aprile 2025