Perché le fate non portano rancore

A partire dal romanzo di Pedro Lemembel, un racconto malinconico e dirompente in grado di scuotere le polveri e restituire le tangenti nascoste nella periferia cilena durante il regime di Augusto Pinochet.

Santiago del Cile. È un tempo di utopie elettriche, quella primavera del 1986, permeato da un trambusto vertebrale, chiassoso, iridescente, dove la danza indolente delle periferie è solo l’epidermide di un più estremo e radicato fermento di indignazione.

Lino Guanciale

Se la penna sovversiva di Pedro Lemembel era stata in grado di catturare l’effluvio radioso e grottesco di quel preciso segmento storico, portando alla luce nel 2004, Ho paura torero, dal 3 al 17 aprile la sua storia approda al Teatro Argentina di Roma per la regia di Claudio Longhi.

Dentro vi è il racconto dell’ascesa di Pinochet, e del golpe che nel 1973 aveva suscitato il crollo di Salvator Allende e il suo governo democratico. Dentro vi è il brusio della dissidenza che sotterraneamente prendeva piede nelle periferie cilene, e ancora il lamento epicedico delle mogli dei desaparecidos, e il mormorio della paura.

Ma ciò che ci accingiamo ad ascoltare non è il reportage cronachistico di tale confluenza storica, né la parabola iperrealistica di un suo comune spettatore; accade qui che il focus (e con esso il fuoco) provenga dall’interno, andando a coincidere con il punto di vista di quella ninfa attempata e spelacchiata, altrimenti detta fata dell’angolo, che alla politica proprio non vorrebbe interessarsi.

Di un’allucinata fantasia barocca

Si sarebbe detta una sartina dei quartieri alti, o ancora, l’audace e passionale creatura proveniente da un non si sa quale universo di bagliori e ghirlande. Solo a tratti sul suo volto, vivacemente addolcito dal trucco, si notava un’ombra scura di nostalgia, subito inondata da un’allegria dirompente e barocca, da un erotismo gioioso, da una voce capace di toccare con spassionata voracità, le corde di un’ironia tagliente.

Sul vecchio giradischi, il trillare delle prime note di “Al ritmo del cuore”, mentre la radio echeggia e il brusio avvolge le strade, e ognuno dei personaggi parla di sé come si accingesse ad osservarsi dal di fuori, gettando un velo sottile sulla cruda verità della prima persona, osservandosi agire in un tempo oscuro e spersonalizzante.

Solo quando si addentra nel tumulto delle strade, la fata, riprende i jeans maschili, e le camicie larghe, quando consegna le sue stoffe alle ricche clienti, o sale sull’autobus per raggiungere Recoleta, e le sue sorelle checche, quando attraversa una città minacciata dalla polizia anticomunista.

E se il suo sguardo è il punto d’osservazione sul quale la storia sotterraneamente si dispiega, la postazione da cui guardare diviene la soffitta polverosa, dove la mammoletta dalle sopracciglia increspate costruisce il suo nido, dove ospita Carlos, quel moretto che l’aveva tutta imbesuita, dove la sua identità investe ogni mobile o panneggio e la sua malinconia si riflette negli specchi, dove canta e riesce a parlarsi d’amore.

Oscuro e molle, come il sogno del dittatore

Nulla ha di lineare il racconto, che procede invece su due linee sovrapposte, e facendolo taglia in due la scena, costruendola come luogo di sovrapposizione.

Se da un lato la vicenda della fata dell’angolo va a dispiegarsi sgarbugliando lentamente i suoi misteri; un’altra storia, simultanea e solo apparentemente distante, si interseca con i segreti di Carlos, con il fronte patriottico Manuel Rodriguez, con La Lupe e con La Rana, restituendo alla storia quel contesto crudo fino ad allora suggerito solo da Radio Cooperativa e dai resoconti tonanti di Sergio Campos.

Al di sopra della periferia, si consuma infatti la quotidianità di Augusto Pinochet, accompagnato dalla stridula ma fedelissima doña Lucia, ma soprattutto dagli incubi ricorrenti, sintomatici di un’infanzia fatalmente interconnessa alle successive scelte politiche.

Così il dittatore vede se stesso camminare nell’asfalto molle della città fino ad essere sommerso da quella melassa urbana, si proietta nel passato vivido del suo decimo compleanno e avverte le sue papille impregnarsi del sapore putrido di quella torta cosparsa di insetti, vive oniricamente lo spasmo di un presente che al di là del sogno si appresta ad avvenire.

E sulle note di Tengo Miedo Torero, anche la fata dell’angolo arriva ad imbattersi nel reale con occhi sempre più consapevoli, crudi e profondi, e dopo aver lasciato la casa al suo rivoluzionario senza cuore, è costretta ad abbandonarla, a fuggire per La Causa per amore dell’uomo che l’ha costretta a guardarsi come sgorbio artritico del disamore.

Ho paura torero di Pedro Lemembel per la regia di Claudio Longhi

Ma le fate non portano rancore, e forse qualcosa accade, attinge verità nello spazio di quell’ultimo incontro, una consapevolezza nuova che fa traballare il senso iniziale delle attribuzioni, che spinge a guardare alle poche cose che nonostante tutto, infiammano il cuore.

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Ho paura torero di Pedro Lemebel drammaturgia: Lino Guanciale – Regia di Claudio Longhi – traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi – trasposizione teatrale Alejando Tantanian – con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero – Teatro Argentina 3 – 17 aprile 2025

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