di Luca Gaeta *
Perché il teatro cerca di capire chi è l’uomo e oggi più che mai abbiamo bisogno di capire chi siamo.
Il teatro è il luogo dove vivono – insieme – quelli che agiscono con quelli che guardano. Dove si partecipa ascoltando e si dice amando. Nella presenza continua tra essere e non essere. Tra corpo e anima. Insieme, lo stare insieme mentre si fa teatro. Non conosco altro modo. Per dare senso al vivere in unica vera comunità: il Mondo.
“Quella piccola “O” che è il Mondo. Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate…“
(William Shakespeare)
IL TEATRO E’ VITA. LA VERA PESTE.
Il regista svizzero Milo Rau ci dice “La situazione non è drammatica ma tragica. Il sistema che abbiamo non potrà essere riparato” forse dovremo sostituirlo con qualcosa di più armonico tra gli esseri. Parlo di società, di persone e quindi pure di teatro. Romeo Castellucci ci dice che questa pandemia ha mostrato la vulnerabilità di questa società, la differenza enorme tra ricchi e poveri, la questione ambientale (che ha causato indirettamente questa emergenza sanitaria), l’interconnessione globale che dobbiamo imparare ad avere, il problema della privacy, del tracciamento, e porci la domanda: cosa sarà della libertà?
In questo paesaggio inquieto il teatro dovrà essere uno strumento di riflessione prezioso. Libero, efficace, reale, non filtrato, non distante, e soprattutto vivo. E dal vivo. Se non possiamo farlo dal vivo allora meglio aspettare, in alternativa bisogna farlo clandestinamente. Il teatrante è già un appestato. L’attore è un’ombra che cammina sulla scena, uno psicopompo che ci traghetta in tutti gli aldilà possibili. Poi se l’attore è davvero bravo ci porta tutti nell’aldiqua. Dove ci si ammala di vita.
TEATRO PIÙ ANTICO DELLA CHIESA.
Come faremo il teatro domani? Spero parlando il meno possibile dell’esperienza del lockdown, del covid-19, delle mascherine, delle chiusure dei teatri, dei diari della quarantena, senza mettere in scena il Decamerone, la Peste di Camus. Ma tornare a parlare dell’uomo di ieri, oggi e domani nella sua interezza, nella tragedia imminente (la prossima), di essere ancora vivi e con un cuore pieno di possibili desideri.
Il teatro è agire verso il destino dell’uomo. La tragedia è l’arte della responsabilità umana, delle azioni di uomini tra gli uomini. L’amore è dove ci sono occhi per vedere e occhi per essere guardati. La magia del teatro è sulla simultaneità di chi lo fa con quello che lo guarda: entrambe respirano la stessa aria, vivono lo stesso luogo, sentono lo stesso freddo, la stessa ambulanza che immancabilmente passa sul più bello. Uno spazio, un tempo. Un tempo e uno spazio che può essere ovunque e in ogni tempo, ma che ovunque sarà, sarà insieme. Senza più buio in sala. Senza più pulpito.
Gabriele Vacis ci dice “Il teatro è la più antica forma di assembramento. Per questo siamo sacrificati in nome della pandemia”. Quindi il teatro è la radice dell’uomo più vecchia.
Più delle religioni monoteiste che sono nate molto dopo e che però possono portare avanti il loro rituale, nel loro teatro con il crocifisso e le candele. Siamo stati i primi a chiudere, anche prima del lockdown nazionale e saremo fatalmente gli ultimi a riaprire. Eppure assembramenti a teatro non è che ce ne siano (magari!), o almeno non come le folle di persone chiuse dentro i centri commerciali o avventori accatastati su piccoli tavolini per lo spritz in orario di aperitivo in centro. Oltretutto i teatri sono luoghi di meditazione civile e avrebbero aiutato la collettività a superare questo tempo incerto con la sua risposta che il teatro sa dare: l’Amore. Di nuovo.
COSA CAMBIARE?
Sembra un circo di “perdinotte” il teatro ma è fatto da persone proprio come tutti gli altri e con una cosa il più: il coraggio dell’instabilità; con una cosa in meno: la paura dell’ordinarietà. Ma con un coraggio nel cuore tanto ostinato da affrontare una guerra. E di guerra si può parlare. Una perdita grande in termini di fatturato, di economia, di indotto e un aumento di incertezza sociale. Questa guerra ci ha reso però consapevoli di alcuni paradigmi che risultano stridenti già da tempo. Infatti i funzionari amministrativi dei teatri e gli organizzatori (spesso nominati dalla politica) lo stipendio fisso lo percepiscono (con i relativi ammortizzatori sociali eventuali), ma gli artisti no. Anche la grande sproporzione delle paghe tra artisti – primo attore e “l’Osrico” di turno – è ingiustificata di fronte al “mercato”. Quindi il futuro sarà limare e rimediare a questi orrori-errori.
IL FUTURO?
Tecnicamente il futuro ci porterà:
Ingressi scaglionati
prenotazioni on-line
posti pre-assegnati
contingentamento del pubblico
pagamenti con carte di credito
privacy allentata
spostamenti limitati
interazioni censurate
orari ridotti
contatti tra attori e attori, attori e spettatori, spettatori e spettatori proibiti
(spettatori ?)
Mi sembra anche superficiale ribadire che il teatro lo si fa solo di presenza e tutto ciò che le nuove tecnologie, i nuovi canali tematici e in streaming, potranno portare saranno solamente divertissement per passare il tempo e credere di esistere.
Esistere è rimettere a posto le cose e dopo una crisi è anche la cosa più facile, poiché è doveroso farlo, poiché l’unica cosa da fare.
Ma è anche molto facile sbagliare, proprio perché lo si deve fare. Quindi domani dovremo ricalibrare tutto ciò che ha reso pesante, distante e solitario il teatro. Allora ripartire è risistemare: i poteri di chi gestisce i teatri, i festival, i fondi dei teatri, siae, agibilità, i finanziamenti dello stato, detassazioni, la qualità del lavoro.
Per tornare a raccontare la magia dell’uomo per gli uomini e non per una masturbazione del proprio ego, o dove la critica è invitata a cena e sedotta dal regista di turno da lanciare e poi, come sempre, abbandonare (critici che si vendono per una cena o che ti si inimicano per un post sui social li conosciamo tutti). La pandemia è solo l’avamposto di ciò che sarà la vera tragedia, ricordate: “il sistema è rotto – non può essere riparato – deve essere sostituito” (Milo Rau). Il teatro dovrebbe raccontare e quindi rendere leggibile questo passaggio. La paura è che l’Europa borghese “romanticizzerà” anche la pandemia e la racconterà con degli osceni diari della “peste” e con immagini di solitudine come nei quadri di Hopper. Invece serve scendere nella nuova guerra mondiale pre-apocalisse e raccontare nuove cose. Quindi basta con Shakespeare, Molière, Cechov, etc. etc. Già. Ma chi scriverà quei nuovi capolavori? Chi racconterà così bene l’essere umano?
Spesso la nuova drammaturgia parla con un linguaggio provocatorio e vuoto, furbo, fintamente intellettuale, come fosse spezzettato nel nulla. Allora forse il silenzio, forse la danza. Allora forse gli attori saranno danzatori. Allora forse sarà un ritorno alle muse del passato. Ma bisogna tornare a raccontare il mondo per farlo comprendere.
E’ UNA QUESTIONE POLITICA?
Marco De Marinis, studioso del teatro, ci dice che se i teatri sono chiusi il teatrino della politica e della società italiana ha continuato il suo nefasto spettacolo, spesso grottesco, la grande performance della politica degli scienziati, dei virologi, degli esperti, degli intellettuali, dei tuttologi è diventato il gran teatro del mondo. Quindi analizzare questi nuovi attori ci potrà mostrare come stare in scena domani. Dove la società si sposterà ecco che il teatro lì l’aspetterà. Perché il teatro sarà sempre l’ultimo lembo ai limiti dell’umano e nella notte risplende per farsi raggiungere da tutti gli uomini del mondo. Ma serve una classe dirigente e le istituzioni devo fare la loro parte. Invece , come ci dice Antonio Rezza in un suo bellissimo articolo: “Le istituzioni hanno lasciato il teatro in una solitudine incendiaria, in un silenzio autoritario”. Silenzio che spesso il teatro merita poiché troppo colluso con chi concede il boccone di cane (da guardia) che lo Stato dona. La paura di perdere la scodella fredda tappa più bocche che “la fotta” o il vuoto di scena. Ci si chiede se sarà il Ministro della Cultura il nuovo Ronconi, a dirci come far baciare in scena Romeo e Giulietta. Allora forse sarà il caso di andare avanti senza le cattive compagnie, senza quelli che hanno un piede nelle sovvenzioni di stato e uno sul palco a leggere con spartito in resta le poesie di Leopardi. O forse Dante visto il 700esimo anno dalla morte da celebrare. Cosa buffa in un paese dove la cultura è stata definita una roba che tanto ci appassiona e fa ridere. Ma il teatro continuerà malgrado il Coronavirus, malgrado tutto, malgrado tutti, troverà come sempre il suo ruolo e la sua voce e tornerà ad esistere. A resistere.
«Il teatro deve essere come la peste, la cui virulenza sconvolge l’ordine dato e dissolve l’organismo che attacca, ma lo dissolve nel cervello e nei polmoni, quegli organi che sono alla diretta dipendenza della coscienza e della volontà, è lì che la peste attacca. E l’appestato muore senza distruzione materiale, muore di male assoluto e astratto, come l’attore, penetrato e sconvolto dai sentimenti. Nel fisico dell’attore come in quello dell’appestato, la vita ha reagito fino al parossismo ma non è avvenuto nulla. Teatro e peste sono un’identica epidemia, una combustione»
(Antonin Artaud)
* drammaturgo e regista