Come siamo arrivati a tutto questo? Ce lo spiega Ducournau in esclusiva al Troisi
Alpha è il nuovo capolavoro di Julia Ducournau, ora al cinema. Sconvolgente, stratificato, cupo, questo film connette gli anni Novanta al tempo presente. Forse il suo più delicato, dato il momento in cui esce. Date le tematiche trattate. Dal rapporto madre-figlia alla paura. Un’apocalisse da virus che parla del fardello della storia e della diffidenza verso il prossimo. Un film come questo necessita di più visioni per coglierne a pieno le sfumature, ma la sua potenza colpisce fin da subito.

Alpha è una tredicenne che adulti svogliati di responsabilità definirebbero “difficile”. La sua popolarità tra pari, già ai minimi storici, si aggrava quando si pensa possa aver contratto una terribile malattia, causa di ingenti morti da anni. La vita della protagonista viene travolta ulteriormente quando si inserisce la presenza dello zio Amin.
Pensava che questo sarebbe stato il suo ultimo film, la regista che fa del body horror la sua firma. Parliamo di una riscrittura unica dell’orrore corporale, che non tiene a bada gli eccessi, che riscrive i confini del genere. Ducournau l’ha sempre avuto in mente, ma credeva che un film che narra dell’emancipazione dalla madre dovesse arrivare più avanti nel tempo. E invece arriva ora, più puntuale che mai, a unire gli anni ’90 ad oggi per farci riflettere sulla paura.
Julia Ducournau al suo terzo lungometraggio si conferma una delle voci più assordanti del cinema contemporaneo. Figlia del cinema di David Cronenberg, fa dell’ossessione per la mutazione dei corpi il suo marchio di fabbrica. Uno studio attento del corpo, esaltato anche da rivelatrici inquadrature al dettaglio. Per lei i corpi funzionano come le famiglie, e le famiglie funzionano come le società. In ognuno di essi, un trauma, un dolore non elaborato e quindi non accettato, incancrenisce.
Su questo insiste Ducournau con Alpha. Un doppio temporale si fonde sul finale per spiegare l’elaborazione di un trauma. Riviverlo per accettarlo e superarlo. La paura che cede al desiderio di libertà. Quella libertà propria anche dell’adolescente, che capisce di avere bisogno di far morire una parte interiore di sé per poter ricreare la sua identità. Emancipata dal legame materno. Come un soffitto che piano piano scende fino a schiacciarti, quella fusione simbiotica primigenea va spezzata. Tagliare quel cordone ombelicale, ribellarsi per reinventarsi.
Aids e Covid uniti dal sentimento comune di paura. Una paura pietrificante. Da qui la scelta di utilizzare il marmo come elemento visivo della malattia. Le persone si ammalano e dai loro corpi irrigiditi inizia a sgorgare sangue liquido, poi in polvere rossa, fino a essiccarli in statue di marmo. Un processo di santificazione per tutti i morti che non abbiamo potuto piangere, sottolinea la regista, magari perché impauriti da un possibile contagio.
Il sangue è ancora protagonista. Una nuova corrente di registe francesi, una Nouvelle Sangue, sta dominando la scena internazionale. Dall’inizio del Terzo Millennio registi come Alexander Aja, Xavier Gens, Bustillo e Maury, Pascal Laugier hanno dato il via a una new wave horror francese, con Marina de Van pioniera femminile. La sua eredità è stata raccolta e portata alle stelle non solo da Ducournau ma anche da Justine Triet e Coralie Fargeat, regista di The substance. Sangue rosso, liquido o secco, tanto e ovunque. Come quella scena un po’ spielberghiana in piscina. O il nostalgico richiamo al suo primo Raw – Una cruda verità nella scena finale. Insomma il sangue è sinonimo di malattia, come è sinonimo di crescita.
Se buona parte della qualità del film è attribuibile alla regia, altrettanto merito è del cast. Ritroviamo la sempre eccellente Golshifteh Farahani, già ammirata nel drammatico ruolo di protagonista del film Reading Lolita a Tehran. I migliori complimenti vanno anche a Mélissa Boros, per aver tenuto un ruolo così emotivamente difficile, alla sua tenera età. Eccezionale Tahar Rahim che, dopo aver perso 20kg per questo ruolo, buca lo schermo con una performance totalizzante nella sua drammaticità.
Ducournau fa un grande lavoro anche sul suono e sulla colonna sonora. Sceglie la musica a partire dalle parole. Testi che parlano per i suoi personaggi. Sceglie Let it happen, perché è ciò si ripete interiormente Alpha quando realizza il trauma da lei vissuto in età infantile. Lascia che accada, accettalo.
Il ruolo della canzone How does it feel this wrong è lo stesso. Che strada abbiamo percorso per arrivare a questo punto così dannatamente sbagliato? Come siamo arrivati a vedere così tante persone morire di AIDS, o di Covid? Come siamo arrivati ad assistere a un genocidio, ora, nel 2025? O alla minaccia nucleare?
Tutti noi stiamo vivendo in uno stato di shock, pietrificati dalla paura. Impotenti. Reprimere il trauma non farà altro che peggiorarlo, imponendo un’eredità sempre più dolorosa, di generazione in generazione. Fino a generare polvere, la polvere delle nostre macerie.

Alpha non ha alcuna intenzione di risultare semplice, anzi, si mostra volutamente ostile. Eppure, ogni singolo fotogramma è pura essenza del cinema. Un’opera travolgente e accecantemente potente. Nonostante sia giusto avvisare che potrebbe causare nausea e disturbo alle persone più sensibili, il consiglio, più vivo che mai, è di andare al cinema.
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Alpha – Regia e sceneggiatura: Julia Ducournau – Mélissa Boros: (Alpha), Tahara Rahim (Amin), Golshifteh Farahani (mamma di Alpha), Emma Mackey (infermiera), Finnegan Oldfield (professore di inglese), Louaï El Amrousy (Adrien), Marc Riso (Benny) – Scenografia: Emmanuelle Duplay – Costumi: Isabelle Pannetier – Musiche: Jim Williams – Montaggio: Jean-Christophe Bouzy – Fotografia: Ruben Impens – Produzione: Mandarin & Compagnie, Kallouche Cinéma, Frakas Productions, France3 Cinema, Proximus, Orange – RTBF – Paese di produzione: Francia e Belgio – Uscita 18 settembre 2025