La regia di Roberto Andò indaga l’ultimo, urgente tentativo di Ingmar Bergman di mappare i meccanismi dell’amore, e delle sue ombre
Dapprima un’oscurità liquida, interamente pervasa da una grave vibrazione di archi; sulla Quinta Suite per violoncello di Bach la scena si apre in un riquadro di luce.

Approda sulla scena del Teatro Argentina di Roma dal 27 al 30 maggio, Sarabanda di Ingmar Bergman perla regia di Roberto Andò che, dirigendo lo sguardo alle dinamiche propriamente teatrali dell’opera ultima del regista svedese, ne ricostruisce sapientemente la struttura.
Qualcosa ha condotto Marianne da Johan trent’anni dopo Scene da un matrimonio, una forza tanto insondata quanto ineluttabile l’ha spinta ad intraprendere un lungo viaggio per trovarsi ora lì, in attesa, di fronte alla casa nel bosco.
Pensavo di abbracciarti– qualcosa è permaso oltrepassando la coltre spessa del silenzio e degli anni, un legame forse più disincantato, forse trasmutato dal cinismo della senilità, ma ancora linfatico, vivo.
Così, l’uno accanto all’altra, i due si tengono per mano, come un tempo; non vi è nulla di fluviale nei loro racconti, piuttosto un silenzio intriso di consapevolezza, e ancora, la condivisione del pensiero esistenziale su ciò che è stato, sul suo indistricabile significato.
Le ragioni del tuo inferno
Abbandonatosi alle forze di una misantropia crescente, Johan (Renato Carpentieri) ha quasi del tutto abdicato al rapporto con l’alterità eppure, senza volerlo, l’arrivo di Marianne (Alvia Reale) lo ha ricondotto ad una condizione di insueta intimità, concepibile solo come sintesi e punto d’arrivo della complessità insondabile dell’amore.
C’è anche il nostro matrimonio nel tuo inferno? – assumendo le sembianze di una sonda che analiticamente e senza tregua tenta di captare il senso dell’esistenza, il dialogo si pone come un’indagine sull’idea di relazione e sull’imprescindibile complessità ad essa connessa.
Se l’approccio al passato condiviso è affidato ad uno sguardo malinconico, quasi stoico su ciò che è stato, differente è l’approccio al presente laddove declinato nelle inquietudini che, nel sovrastare il rapporto padre- figlio, lo spingono alla sua deflagrazione.
Vivace con brio, senza espressione
Articolandosi come successione di inquadrature evocanti nella loro resa scenica, un impianto volutamente cinematografico, le scene si configurano come spazi duali. Appaiono infatti concepiti come affondi volti ad indagare specifici legami relazionali intercorrenti tra differenti coppie di personaggi.
Se all’inizio l’incontro tra i due anziani coniugi aveva rivolto un diretto riferimento all’intricato rapporto esistente tra Johan e suo figlio Henrik, restituendo a Marianne l’immagine del suo presente, aveva fatto accenno anche alla presenza di Karin, sua nipote.
Così, a partire dalle scene seguenti, altri due personaggi si concretizzano sulla scena, allargando con la loro storia e presenza la raggera delle declinazioni possibili, offrendo ulteriori epifanie per quel nucleo incendiario e misterioso che è forse il fil rouge dell’intera narrazione: la linea sottile tra amore e disamore.
E sono troppo piccolo per la mia angoscia
È possibile osservare come nell’apparato scenico il singolo dialogo rappresenti il microcosmo che nell’intersezione con gli altri restituisce alla storia la sua organicità. Ogni inquadratura, e dunque ogni relazione si costituisce come esternazione di una più grande anatomia dell’affetto dove la descrizione della singola ombra, va a completarsi o a ribaltarsi nel riferimento alla successiva.
Nell’oscuro gioco di affondi all’improvviso un uomo sembra schiacciato dalla scoperta della sua umanità, e dunque, inequivocabilmente al pensiero della morte.
Alle volte non mi sento neanche reale– confida Johan a Marianne in preda ad una paura notturna- è un’angoscia terribile e furiosa.

Se il leitmotiv dell’amore, come temibile e fosco intrigo di fili incontrollabili si era costituito nella forma di movimento continuo e irrisolvibile, a bloccarne la rotta è il concetto di fissità, di arresto. E in quel dinamismo finale che infuria, e devasta, e imperversa, la verità sull’amore esce fuori, livida e schietta, nuda da ogni fronzolo. Sono venuta perché pensavo mi stessi chiamando, mi ero messa in testa che tu mi stessi chiamando
___________________
Sarabanda di Ingmar Bergman – regia di Roberto Andò – traduzione Renato Zatti – con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi – scene e luci Gianni Carluccio – costumi Daniela Cernigliaro – musiche Pasquale Scialò – suono Hubert Westkemper – Teatro Argentina dal 27 maggio al 1 giugno 2025