Il racconto di un viaggio onirico tra mondo dei vivi e mondo dei morti
Al centro solo una panchina, attorno centinaia di minuscoli lumi, delimitano e plasmano la scena come segnali di una spazialità sospesa tra l’accadimento e la sua attesa.
In scena al Teatro Basilica di Roma dal 7 al 10 novembre Totò e Vicè di Franco Scaldati e per la regia dei suoi interpreti Enzo Vetrano e Stefano Randisi, ha inizio con l’ingresso di due creature mercuriali: le osserviamo attraversare il palcoscenico ciascuno con la propria valigia, le sorprendiamo in medias res intente ad interrogarsi l’un l’altro sulla materia del paradosso e del sogno.
Dove nulla accade ma tutto è accadimento
Potremmo essere il sogno di uno che è morto- i loro dialoghi si collocano nel limen immisurabile che separa il vero dal suo rovescio, l’ovvietà dell’universo dal suo più persistente stupore: agenti in una dimensione di attesa tanto desertica quanto spaesante, l’uno ha bisogno dell’altro, di sentirsi chiamato, ascoltato dall’altro, per non perdersi.
Ogni formulazione è preceduta dall’invocazione, dall’appello all’alterità, ogni discorso si origina dalla necessità di rivolgersi al di fuori di sé, nasce dall’impatto della propria presenza sull’altra: come i beckettiani Vladimir ed Estragon i due sono tra loro complementari, come loro attendono ad oltranza, ma la loro attesa non ha oggetto né nome.
Talmente incalzanti da sovrapporsi, i quesiti determinano il ritmo iterato di una drammaturgia dove nulla davvero accade ma tutto è osservato come accadimento, dove l’atto stesso di osservazione si pone in relazione alla temporalità ribaltandone i presupposti, ricorre a prospettive insolite nell’approccio al senso. Anche il luogo muta le sue configurazioni: da stazione diviene camposanto, da mondo dei vivi si trasforma in mondo degli spiriti; a non cambiare coordinate è solo l’idea dello spazio, sempre identificato come crocevia, snodo, soglia di transizione dove tutto può verificarsi, dove tutto è in potenza.
Irruento, tonante, un suono fuoricampo, rompe la circolarità iniziale destabilizzando il ritmo della rappresentazione come a suggerire la presenza di un’altra realtà coesistente al piccolo microcosmo onirico della scena: camminiamo, camminiamo, ma dove andiamo?
Sulla materia della presenza
L’interrogativo, forse il più grande, il meno predisposto a vagli o sonde, riguarda la sostanza: siamo vivi perché percepiamo la nostra sostanza, perché senza sosta ci interroghiamo sulla sua determinazione, siamo vivi perché usciamo dall’indeterminazione.
Siamo fatti con la mollica del pane, e ancora: com’è che parlo e non mi sento?
Poco importa che la domanda echeggi dal regno dei vivi o rimbombi tonante da quello dei morti, a determinarla non è neanche la condizione di umanità in quanto tale: al centro vi è il disperato tentativo di non essere risucchiati dalla spersonalizzazione, di tastare la propria materia, di toccarla.
Vicè, perché piangi? Perché sono morto.
Se Vicè è sconvolto dal sogno in cui osserva se stesso bussare alla propria porta, se Totò rabbrividisce alla risposta dell’amico quando senza riserve gli confida di essere entrato nell’oltretomba, ogni risposta è la configurazione del terrore di fronte al rischio di scomparsa, dell’angoscia che attanaglia l’esistente quando si accinge a divenire assenza, posto vacante.
Il mondo dei morti è grande ma la condizione del sogno, per la sua reversibilità e persistenza, consente di restituirne un’immagine, di tornare indietro per condividerne la paura di fondo, di sondare più a fondo la propria e l’altrui sostanza. Vissuta nel piano onirico, la morte assume e sembianze di una meta immaginata che consente di voltarsi, di far partecipe l’altro dell’esistenza sotterranea e invisibile delle cose: il cielo è pieno di campane sospese, solo tirando le loro corde possiamo avvertirle.
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Totò e Vicè – di Franco Scaldati – regia e interpretazione di Enzo Vetrano e Stefano Randisi
disegno luci di Maurizio Viani – costumi di Mela Dell’Erba – tecnico luci e audio: Antonio Rinaldi – Teatro Basilica 7/10 novembre 2024