Buona la prima per la regista sudcoreana che al suo debutto guadagna ben due nomination
Past Lives, letteralmente “vite passate”, racconta di rapporti, storie d’amore, di destino, di infanzia, di immigrazione, di cultura. Partendo proprio da un’autobiografia, Celine Song, regista sudcoreana immigrata prima in Canada e poi negli Stati Uniti, riesce a portare su schermo un sentimento difficile da spiegare. La vera protagonista del film è la malinconia. Quella malinconia che risponde alla domanda “come sarebbe andata se?”. Se non mi fossi trasferita, se avessi accettato quella proposta, se mi fossi dichiarata. Un film che con vortice spazio-temporale ci parla della vita nella sua complicata bellezza.
Quante volte capita, seduti a un bar, di guardarsi intorno e pensare: “Di che cosa staranno parlando quelle persone? Che rapporto li lega?” E immaginando storie incredibili si lascia correre la fantasia. Così fa la regista, iniziando il film con una voce fuori campo che inquadra tre persone: un ragazzo e una ragazza coreana, seduti accanto, l’uno rivolto verso l’altro, a parlare. Accanto alla ragazza un altro uomo dai tratti occidentali.
Il tempo della narrazione regredisce di 24 anni, quando una bambina e un bambino coreani discutono su un voto scolastico. Si vogliono bene, molto. La quotidianità trascorsa sempre insieme viene interrotta dal trasferimento della dodicenne (Na Young) insieme alla famiglia in Canada. Cambia il nome in Nora Moon e sparisce completamente dalla vita di Hae Sung. Dodici anni più tardi i due rientrano in contatto e iniziano una frequentazione esclusivamente telefonica.
Nonostante ciò, il futuro non sembra riservar loro uno spazio comune. Vite diverse e difficoltà nel potersi rivedere fisicamente, portano Nora a interrompere nuovamente la comunicazione con Hae Sung. Quest’ultima, poco tempo dopo, conosce Arthur, un giovane artista americano con cui si sposa. Altri dodici anni dopo, il tempo della narrazione si riallinea con l’inizio della pellicola, quando Hae Sung fa un viaggio a New York per incontrare Nora.
La tensione a quel bancone del bar rappresenta il punto focale del film. Lì si raggiunge tutto il senso della pellicola, nella percezione del rapporto che lega quelle persone. Una storia d’amore canonica e una storia d’amore che poteva essere, ma non è. Questa vive nel ricordo dei due protagonisti, di un sentimento forte ma acerbo, che rimane sopito per anni in fondo al loro cuore ma non muore, proprio perché non ha avuto la possibilità di concretizzarsi. Hae Sung, che sembra il più determinato a conquistare Nora, in realtà ricorda Na Young, dodicenne. Non ha idea di chi sia Nora.
Allo stesso tempo, Arthur si rende conto della sua impotenza di fronte a quel legame. Si vede terzo, intruso nella conversazione tra sua moglie e il suo amore infantile. Per quanto la sceneggiatura sia un po’ trattenuta proprio sul suo personaggio e sul matrimonio con Nora, non si può far a meno di apprezzare una figura maschile tanto sensibile ed empatica, quanto matura e rispettosa. La narrazione di entrambi, Arthur e Hae Sung, porta un modello del maschile positivo non così comune su schermo.
Attraverso il personaggio di Nora invece si irradiano diverse tematiche, tra cui le conseguenze dell’immigrazione. Questo senso di divisione tra Hae Sung e Arthur è metafora di quello più profondo, tra Corea del Sud e America del Nord. E così risulta lo stesso film, condizionato nella sua struttura, ambientazione, atmosfera e ideali. Nora è una persona completamente diversa da Na Young. Cresciuta in un paese occidentale ne ha assorbito tutto, dalla cultura al modo di pensare, dalla percezione della realtà agli obiettivi per il futuro.
La Corea del Sud però rimane sinonimo della sua infanzia, di un parte profondamente sedimentata in lei, da cui sarà sempre attratta e nostalgica. Nora, quando si trova a parlare di Hae Sung ad Arthur, lo descrive come “molto coreano” in ogni suo aspetto. Lo fa con quell’occhio critico di consapevole appartenenza ma allo stesso tempo di lontananza, quasi contrapposizione, tipica di chiunque lasci il proprio paese natale.
Rivedere Hae Sung significa fare un tuffo nel passato. Significa rivedere Seoul e appagare un senso di mancanza. Significa consapevolezza di essere una persona diversa, aggrappata solo ai ricordi. E nulla resiste al tempo più dell’amore. Parallelamente ci viene insegnato però come ci siano casi in cui non vale l’assunto nolaniano per cui l’amore è l’unica cosa in grado di trascendere spazio e tempo. Qui semplicemente si parla di rapporti che coesistono anche se, con tutta probabilità, Nora e Hae Sung si incontreranno nuovamente soltanto in una prossima vita.
Ecco che a ciò si collega una parola coreana che il film rende centrale: In-Yun (che in coreano significa “destino” contestualmente a una relazione). Due persone sposate, secondo questa filosofia buddista, hanno vissuto 8000 In-Yun durante le loro vite passate. Si tratta di incontri casuali, fatti di poche parole, coincidenze come sfiorarsi per caso in mezzo alla strada. Tutto ciò concorre a creare i presupposti per, in una vita futura, rendere due persone “destinate” al loro amore. E così Hae Sung spera che il loro rapporto in questa vita sia presupposto dell’amore tanto agognato con Na Young nella prossima, quando e ovunque essa sarà.
Né vincitori né vinti si esce sconfitti a metà. Con le parole di Arisa in sottofondo potrebbe concludersi un film in cui regna il silenzio come colonna sonora. Un film introspettivo, che con sbalzi temporali portati all’estremo in una toccante sequenza finale, riempie la sala di una malinconia commovente. E mentre scorrono i titoli di coda la testa parte e va in giro, ripercorre la vita, tra ricordi e scelte, chiedendosi Come sarebbe andata se…
Past Lives – Regia e sceneggiatura di Celine Song – Con Greta Lee, Teo Yoo, John Magaro, Seung Ah Moon, Seung Min Yim – Musiche di Christopher Bear e Daniel Rossen – Dal 14 febbraio al cinema.