Un corpo silente ci accusa.
Pasolini. Sotto gli occhi di tutti, di Valentina Cognatti (Margot Theatre), da lei stessa definito teatro fisico poetico, è un’esperienza immersivo metaforica ad ondate, dove si accavallano senza soluzione di continuità, con metamorfosi continua, lacerti di opere e momenti di vita dell’unico artista maledetto nostrano. Non è una rielaborazione critica, ma un denso omaggio, e un promemoria, dove i quadri opera appaiono e scompaiono a delineare il percorso creativo e la vis critica dell’autore, fino alla profezia della propria morte – e della morte degli anni settanta – come risuona nelle parole dell’intervista a Furio Colombo, nel 1975, rilasciata il giorno prima della sua morte violenta.

“Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia […] non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono […] L’acqua sale […] e ti annega […] non perdiamo tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati”
Per tutto lo spettacolo Pasolini è in scena come ieratico testimone muto, in nero, mentre intorno gli altri si scatenano, in gioia, vitalismo, dolore.
Si aggira, guarda, si sposta, accenna lievi gesti perplessi.
Solo qui comincia a parlare le parole della sua intervista, ma genialmente spezzettate in un gorgoglio soffocato da un continuo bere sbrodolare. Come se il suo parlare fosse al contempo indefessa sete di verità e martirio, ed un annegare nell’acqua che sale di una società che annega nella corruzione violenta del consumismo e del neocapitalismo certo, ma soprattutto delle trame nere, della cui denuncia probabilmente il nostro pagò con la vita.
Un’immagine che costituisce un climax visivo gestuale e narrativo, nella sua impotenza immobile rispetto alla gestualità danzante degli altri.
E forse qui l’unico neo.
Invece di fermarsi, limitandosi al lento smorire nel lutto, come nell’ultimo quadro, dove lui e gli altri sollevano sul tabellone la mater dolorosa; invece di fermarsi al culmine, la regista sceglie una svolta circolare, recursiva. La tragedia è momentaneamente interrotta da un urlo gioioso – goool – e in scena tutti si affollano, compreso il poeta, destituito di santità tragica, attorno ad un pallone.
E’ il ritorno del mito vitalistico dei ragazzi di vita, prima della morte. Ma poteva anche non essere.
Ma torniamo agli inizi.
In scena, retta dagli attori una parete pedana di legno, in verticale, su cui troneggia una poesia accusa alla nazione e alla borghesia (da, Poesie in forma di rosa)
Terra di infanti, affamati, corrotti […] Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci / pascolano […]
La borghesia delle trame nere, dell’Italia provinciale e mafiosa, dell’ipocrisia laida e perbenista, da cui non fu immune quel PCI che lo esiliò per dissenso e sessuofobia.
La borghesia stigmatizzata in Teorema e Porcile, ma anche dei giovani rivoluzionari figli di papà. La borghesia del pigro intellettualismo astratto.
In tale senso una delle scena forse più belle e crudeli, e perspicua nel suo senso anche senza conoscere le opere pasoliniane, è quella in cui un gruppo di giovani in giacca e cravatta stanno voyeuristicamente intorno ad un barbone affamato, a terra, che mangia. Discutono teorizzano e ridono. Gli lanciano briciole di cibo, come ai cani, e quando gli porgono un dolce su un piatto, lui a quattro zampe lo divora sbavando.
La parete. La poesia.
Accanto Pasolini, silente, accenna con le mani gesti pensosi.
Poi dalla parete – in controcanto allo ieratico Cum dederit di Armand Amar, cantato dalla soprano Sandrine Piau – dalla parete in controcanto al melisma ieratico ed al silenzio pasoliniano, sgorgano e capitombolano in scena i bravissimi giovani attori, acrobatici e popolareschi al contempo. Seminudi. I ragazzi di vita del film Accattone. Si arrampicano, corrono intorno, mimano a danza, in stile Pina Bausch, lotte e guitterie. Urlano qualche battuta sulla fame.
La parete.
Divide e genera. Fa da perno.
Si trasforma in pedana instabile o opprimente, come la nazione che rappresenta (l’Italia), e di cui parla la poesia inscrittavi. Un perfetto e semplice oggetto scenico, polifunzionale e polisemico. Trasformativo. Da dietro si emerge, e dietro vi si nasconde. A lei sono appesi i due attori che rievocano Che cosa sono le nuvole? (1968) , splendidi nella mimica marionettistica, per successivi stop motion a maschera, e più avanti, crocefisso, da lei pende l’attore di Ricotta (1963). E da sopra la parete una mano butta in scena soldi. Una scena che fa da ponte tra una splendida Serena Borelli che incarna la Anna Magnani di Mamma Roma(danzando col figlio), e liti tra protettori, poi degenerate in un grugnire a 4 zampe di maiali intorno al soldo, ma anche che prendono violentemente a testate uno a terra, in un oscillare tra violenza predatoria e omicida. Mamma Roma? O la borghesia fradicia di Porcile, o di Teorema? Una scena comunque vivida di per sé.
Le immagini sono infinite. Si accalcano, a metà tra il gioco un po’ stremante a indovinare l’opera allusa, e l’abbandonarsi al senso iconico a prescindere.
Così sono suggestivi le bandiere rosse più volte esposte e maltrattate; e il pianto muto a bocca aperta di una Borelli/Maria (dal Vangelo secondo Matteo), aggrappata disperata ad un Pasolini-Cristo, e mater dolorosa che in più riprese passa dietro altre scene, insieme a uno col crocefisso.
Immagini, immagini, e ad intervallare vitalismi di gruppo, gestual acrobatici, dei ragazzi di vita, col loro scomposto vociare corale.
E la parola?
Se si esclude il monologo ostruito finale di Pasolini, la parola è Serena Borelli, che accanto alla contenuta ed essenziale gestualità posturale, è l’unica ad avere in mano discorsi di vario grado: vitalistici, accorati, a sfottò. E magistrale in tutti i registri.
Se infatti sa perfettamente calarsi nel tono smargiasso e pensoso della Magnani, altrettanto bene incarna la mestizia della borghese di Teorema, a lutto
“Mi accorgo ora che io non ho mai avuto alcun interesse reale per nulla… e non so capire come ho potuto vivere in tanto vuoto […] Dunque partendo non distruggi niente di ciò che c’era in me prima, se non una reputazione di borghese casta. Che importa?
Ma ciò che invece tu stesso mi hai dato, l’amore nel vuoto della mia vita, lasciandomi, lo distruggi tutto”.
o l’incalzare accudente di Laura Betti con Pasolini, che intanto viene sballottato sulla tavola
“A Roma si muore .. dobbiamo disubbidire, denunciare … Vedo l’indifferenza, Pier Paolo, ma non ti lascerò mai solo”
dopo aver cantato Cristo al mandrione
“Ecchime dentro qua / Tutta ignuda e fracica […] Filame se ce sei, Gesù Cristo

Non si può dire di più e si può dir tutto di questo spettacolo collage, che pur nella frammentarietà inarca una coerenza crescente, ondivaga, dal vitalismo alla tragedia, e che fa sinfonia di più linguaggi.
Onore al teatro che lo ha ospitato, ma non si può non deplorare la brevità dell’apparizione. Augurandogli più lunga permanenza in cartellone, mentre nelle orecchie riecheggia l’entusiasmo del pubblico.
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Pasolini. Sotto gli occhi di tutti – Regia Valentina Cognatti – Con Serena Borelli, Andrea Carpiceci, Gabriel Durastanti, Luca Morciano, Alessandro Pisanti, Michelangelo Raponi, Alice Staccioli – Aiuto regia Martina Grandin – Organizzazione Alice Staccioli – Costumi Fiorella Mezzetti – Dipinti Luca Pandolfi – Produzione Margot Theatre Company – Spettacolo vincitore del Premio Fantasio Festival 2021 e del Premio Scintille Teatro 2022 – Sala Umberto, 21 maggio 2025