Paruccini: «Troppe spese, il teatro dovrebbe avere grossi sponsor»

Inchiesta. Il direttore artistico de Lo Spazio ci introduce in un mondo pieno di contraddizioni

A Manuel Paruccini la definizione non è piaciuta: l’accostamento tra Lo Spazio di via Locri, a San Giovanni, e la catena di montaggio l’ha fatto sobbalzare. «Il paragone prende a pretesto il settore di una fabbrica meccanica assolutamente senz’anima, io invece nel mio lavoro l’anima ce la metto, eccome! E, comunque, tutte le mie proposte restano fondamentalmente artistiche.» Resta, però, anche un cartellone affollatissimo che annuncia quarantasei titoli di vario genere accompagnati dall’affettuoso slogan off per scelta. Ma, dopo la lunga chiacchierata con il direttore artistico, la libera scelta di un teatro privato, appare davvero scarsa, e, stando a quel che dice, una stagione tanto ricca di spettacoli diventa addirittura indispensabile per sopravvivere. «Non abbiamo alcuna sovvenzione da parte dello Stato.» Vero, anzi verissimo: quando si tratta di dare, il Ministero tace, anzi, scompare, non prendendo (nella maggior parte dei casi) neanche in considerazione le esigenze più essenziali delle piccole realtà teatrali che si sforzano di dare un palcoscenico ai circa centomila attori italiani che spesso, e per lunghi periodi, per sbarcare il lunario, sono costretti a lavorare in altre attività e non a concentrarsi in quelle per le quali hanno studiato.

Quando si tratta di prendere, invece, lo Stato si fa sentire. «Certo! Le tasse le pagano tutti, anche un teatro non sovvenzionato è gravato da ogni tributo. E poi ci sono le utenze, l’affitto e la manutenzione del locale, la paga per un numero minimo di dipendenti. Poi le spese per la promozione degli spettacoli. Per gli aggiornamenti continui sul sito internet [teatrolospazio.it, ndr] è indispensabile una persona; occorre un ufficio stampa, la tipografia per locandine e brochure. Tutti costi che ricadono sul teatro e non sulle compagnie che ospitiamo. E molte di queste spese, le più gravose, sono spalmate sull’intero anno, mentre i contratti con le compagnie e lo sbigliettamento si concludono a fine maggio.»

A quali condizioni accogliete gli artisti? «Solitamente impostiamo l’accordo 70/30, come la maggior parte dei teatri.» Spieghiamo: il ricavato dello sbigliettamento viene diviso tra la compagnia (70%) e il teatro (30%), che oltre a far fronte alle spese già menzionate, si dovrebbe caricare anche delle quote da versare alla Siae, tramite i borderò, tuttavia, «con ciascun ospite si cerca di trovare aggiustamenti per venirsi incontro. Quasi sempre lascio gratuitamente, a tecnici e artisti, sala e palcoscenico per l’intera giornata dell’allestimento, altrimenti qualcuno, pur di risparmiare, comincia a lavorare la mattina del debutto arrivando poi stremato la sera al Chi è di scena. Un tour de force che non porta a nulla di buono.»

Paruccini ha avviato la sua attività di direttore artistico de Lo Spazio «un paio d’anni prima del Covid», avverte con un amaro sorriso per lasciare intendere tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare per superare «il periodo più critico nella storia del teatro. La chiusura forzata delle attività è stata un’occasione generale per riflettere e per trovare soluzioni a un problema antico, ma il comune impoverimento economico, ci ha resi tutti un po’ più aridi. E questo non è un bene. Il problema di fondo è rimasto, anzi s’è aggravato.»

Manuel dirige Lo Spazio insieme con sua moglie. Entrambi provengono dal mondo della danza: è stato per anni Primo ballerino al teatro dell’Opera di Roma. Lì ha imparato ad amare il palcoscenico cominciando dall’arte coreutica, «ma sono sempre stato un attento osservatore di tutto. Non mi soffermavo solo ai movimenti di ballo, guardavo il lavoro dei registi, degli scenografi, dei macchinisti, degli elettricisti. Credo di essermi costruito un bagaglio di esperienza completo per poter affrontare la direzione di un teatro anche se di minori proporzioni.»

Ha rilevato Lo Spazio da Francesco Verdinelli e Alberto Bassetti, i quali gestivano il locale come un’associazione «e spesso lo affittavano per ogni tipo di evento: incontri, feste private, un’attività molto più redditizia rispetto alla sola programmazione di spettacoli.» Paruccini ha optato per un cartellone esclusivamente teatrale, lasciando aperto il palco anche a qualche performance alternativa. «Ma sempre di livello. Soltanto durante i mesi di giugno e luglio apro le porte a eventi diversi ospitando qualche saggio scolastico.» Occorre fare i conti con agosto e settembre, mesi praticamente morti, senza alcun introito, ma soltanto spese. Appena prese le redini del comando ha trasformato la vecchia associazione in società, abolendo la fastidiosa tessera di iscrizione. «Ho voluto dare un segno chiaro al pubblico. Sembra una sciocchezza, eppure quell’aggiunta di pochi euro al costo del biglietto per la tariffa associativa, veniva spesso fraintesa e molti spettatori storcevano la bocca. Ho adottato una vendita più limpida: il costo del biglietto e basta. Sia chiaro: pochissimi omaggi, qualche biglietto ridotto e soprattutto ingresso a prezzo pieno.»

Con pochi giorni di rappresentazione è ovvio che il pubblico che aderisce alle recite sia formato per lo più da parenti e amici stretti. Come ci si comporta con loro? «Gli accordi vengono presi prima. E le regole, in questo caso, le detta il teatro: sono io che stabilisco il numero massimo di biglietti di favore. Comunque la formula del 70/30 mette tutti d’accordo: se le compagnie pretendessero più ridotti sarebbero loro le prime a rimetterci.» E i produttori vengono a vedere gli spettacoli? Riescono a sapere in tempo se un lavoro merita la loro attenzione? Insomma, Lo Spazio potrebbe essere certamente un ottimo trampolino di lancio, ma qualcuno deve pur avere la possibilità di raccogliere la nuova proposta, affinché artisti che impiegano denari ed energie non vedano morire subito la loro creazione. «Io metto a disposizione il palcoscenico per l’esibizione e certamente mi adopero per far venire direttori di altri teatri e distributori con i quali sono spesso in contatto. Anche le compagnie si muovono in questo senso. Conviene a tutti.» Con una programmazione così serrata, le nostre recensioni a cosa servono? «Agli addetti ai lavori. Per promuovere il loro operato in caso di ripresa della performance, come fosse un biglietto da visita.» Prendo appunti, tralasciando il sottotesto che già conoscevo!

Torniamo alle sovvenzioni che, sappiamo, non ci sono, ma ci potrebbero essere gli sponsor o i fondi europei per la cultura, di cui spesso si parla anche a sproposito. Paruccini sorride: «Il teatro in generale dovrebbe avere grossi sponsor per andare avanti, ma purtroppo gli sgravi fiscali per la cultura sono irrisori e non conviene a nessuno impegnarsi con cifre esagerate. Avevo trovato un ristorante che si prestava ad aiutarci, ma quanto può investire un ristorante di quartiere in un’attività artistica che richiede un budget molto più cospicuo? I fondi europei per la cultura, è vero, sulla carta esistono, ma partecipare al bando è un’impresa titanica: bisogna addentrarsi in una giungla burocratica che non finisce mai. Dovrei assumere una persona per impegnarla solo in quel settore e non posso permettermelo. Inoltre i tortuosi criteri imposti per ottenere i capitali possono essere seguiti soltanto dai teatri stabili che hanno un’attività di produzione per noi, piccole entità, impossibile.»

Nessuno dei due ha il coraggio di dirlo apertamente, ma entrambi sappiamo bene di trovarci di fronte a una realtà teatrale e culturale piena di contraddizioni. Le affrontiamo come in uno slalom, cercando di evitare l’impatto, la caduta. Il lavoro amministrativo di un teatro cozza violentemente contro quello artistico. Manuel, pur contestando il mio paragone, sa che le regole di palcoscenico sono altre – lui che prima di un pas de deux doveva riscaldare i muscoli, le conosce bene quelle regole! E io, ascoltandolo, percepisco che, al momento, non potrebbe fare altrimenti per portare avanti il suo Spazio.

La grande sala di Paruccini è una delle più affascinanti della Roma off-theatre. Un ambiente unico con un palco a elle che, all’occorrenza, potrebbe essere usato come doppio spazio scenico. C’è il bar che funziona, in silenzio, sotto tenui luci, anche durante le rappresentazioni, proprio lì, di fronte ai personaggi che espongono il loro dramma: «Non è mai il soffuso movimento al bancone che disturba la recita, semmai sono i cellulari che distraggono sia gli artisti che gli spettatori.»

La politica gestionale di Paruccini appare impeccabile. Non vorrei essere io, redattore, né provocatorio né ripetitivo, ma sembra proprio una perfetta catena di montaggio, con tutto il rispetto per la passione del suo direttore artistico e l’animosità del suo operato. «Io praticamente vivo qui in teatro. Le mie pause sono davvero poche. Gestisco il mio Spazio come un’azienda. Cerco di far quadrare i conti, non perdendo mai d’occhio né spese né guadagni. Lo ammetto, c’è poco di artistico in tutto questo, ma lavoro per fornire un servizio artistico alla cittadinanza.» Mentre parliamo, seduti in sala, al tavolo del bar, di fronte a noi alcuni tecnici lavorano a un fondale bianco, un altro è impegnato col puntamento di un proiettore, poco prima qualcuno provava l’acustica del suo contrabbasso. L’attività è in fermento.

«È un insegnamento appreso da Beppe Menegatti. Diceva che il palcoscenico deve essere sempre attivo. Durante le pause delle prove di un corpo di ballo, lui organizzava coreografie di spettacoli che sarebbero andati in scena mesi e mesi dopo. All’epoca mi sembrava una follia, ma oggi ho capito che il teatro bisogna farlo così.»