PARASITE: La recensione

Quattro premi Oscar, tra cui per la prima volta contemporaneamente quello di miglior film e miglior film straniero, diventando così la prima pellicola in lingua non inglese ad ottenere il riconoscimento più ambito,  Parasite ed il regista sudcoreano Bong Joon-ho sono  stati i veri protagonisti della notte di Los Angeles.

Ma i record non finiscono qui: ha vinto anche la Palma d’Oro a Cannes, ed è un binomio che ha un solo precedente nella storia dopo “Marty, vita di un timido” negli anni cinquanta; in più, porta a casa quattro statuette tra le più importanti, ma non ha avuto nemmeno una nomination nelle categorie dedicate alla recitazione.

E una curiosità, c’è qualcosa di italiano in Parasite.  Nella colonna sonora compare “In ginocchio da te” di Gianni Morandi in versione originale in italiano a commento di in una delle scene più drammatiche.

Parasite è un film stupefacente, di cui non si può raccontare la trama per non rovinarne la sorpresa, ma che certo non annoia mai e anzi ci fa saltare sulla poltrona, mettendoci dentro, piano piano, un’inquietudine sottile che sappiamo sfocerà in un colpo di scena, che però si rivela diverso da quella che possiamo prevedere, un po’ thriller, un po’ horror, drammatico ma con momenti di commedia e di ironia.

Il regista Bong Joon-ho ha dichiarato di aver preso il soggetto da una storia quasi vera. Infatti intorno ai 20 anni ha lavorato come insegnante privato di matematica presso una ricca famiglia di Seul.

Il lavoro gli era stato procurato da una compagna di corso, che poi è diventata sua moglie, pur non essendo lui troppo dotato per la matematica.

Da qui l’idea di farne un film e di mostrare due mondi lontani che entrano in contatto, facendo interagire due famiglie, una povera che vive in un umido seminterrato di un quartiere degradato e l’altra ricca, con la sua grande villa adagiata sulla collina.

Per questo soggetto Bong Joon-ho ed il suo storico assistente di produzione, Han Jin-won hanno vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura.

Tutto in Parasite è curatissimo nei minimi dettagli. Basti pensare che le due case, in cui si svolge la maggior parte delle scene, a parte qualche ripresa di esterni sempre magistralmente girata, sono state ricreate espressamente per il film in un set. E’ difficile credere che le due abitazioni non esistano, che la villa moderna, elegante, piena di legno ,linee semplici e vetrate sia una ricostruzione in studio e non la creazione di un famoso architetto.

I due spazi sono completamente diversi tra loro e differenziano anche gli stati d’animo; da una parte i quattro componenti della famiglia povera sembrano essere sempre troppo stretti negli ambienti angusti della loro casa, dall’altra la grande villa dà priorità a linee pulite, con ampi spazi e stanze quasi vuote in cui la macchina da presa si muove con facilità seguendo i diversi personaggi. Tutto è costruito per seguire e mettere in primo piano la sceneggiatura, per dare spazio alla storia che è poi valorizzata da un montaggio impeccabile, che limita l’uso dei tagli.

Nella prima parte del film tutto sembra raccontarci una satira sociale, il divario tra ricchi e poveri come siamo abituati a vederlo in tanti paesi. Una storia di contrasti tra vita nelle favelas e lusso dei quartieri ricchi. Ma, come ha raccontato lo stesso Bong: “volevo che il film fosse una fine pioggerella che piano piano cresce per diventare un tifone”.

Obiettivo centrato. L’inquietudine che prende lo spettatore cresce, si trasforma in suspense, stupore, orrore e queste sensazioni non ci lasciano tanto facilmente neanche dopo la fine del film.

La pioggerella diventata tifone ci investe, ci pervade e ci sorprende, lasciandoci completamente zuppi a riflettere sui tanti piani di lettura del film. Parasite sembra cambiare le carte in tavola, modificando anche, senza avvertirci, le regole del gioco. E in questo sta tutto il suo fascino e la sua novità.