In scena con “La giovinezza è sopravvalutata”, progetto nato dalla collaborazione di Marco Vicari e Gioele Dix, Paolo Hendel porta sul palco romano del Teatro Vittoria un divertente, quanto riflessivo, monologo sull’avanzare dell’età e di ciò che questo ne comporta. Passando per Leopardi, Lucrezio, Mario Monicelli, Plinio il Vecchio, Frank Sinatra, Sant’Agostino, il suo si rivela un teatro intorno – e con – l’uomo dove a farla da padrona è un libero flusso di pensiero che si tramuta in esperienza da condividere e condivisibile.
In scena ancora per qualche giorno sul palco romano, ci troviamo così a conversare piacevolmente con l’autore ed interprete del monologo tratto dall’omonimo libro uscito nel 2018 per Rizzoli.
Dagli studi letterari al teatro. Com’è nata la sua passione per il teatro, fattasi poi la sua professione?
È iniziato a mia sorpresa; non era prevista questa strana cosa di salire su un palcoscenico a fare poi chissà cosa! Mi ci son trovato per caso ed ero già grandicello; avevo già all’incirca trent’anni. Prima facevo tutt’altro: avevo il mio lavoro sicuro nell’amministrazione provinciale di Firenze in un comodo ufficio; però in qualche modo ho sentito la voglia di salire su un palcoscenico e di condividere con un pubblico uno stato d’animo spesso tutt’altro che allegro. Anzi, il bisogno era – ed è tutt’ora – di ridere insieme ad altre persone – trovando quindi con gli altri una sintonia – delle cose della vita che non ti piacciono, che ti fanno paura, che ti fanno arrabbiare, per esorcizzarle. Spesso ridere di cose tutt’altro che allegre è una forma di difesa che abbiamo tutti; un bisogno fisiologico perché poi si sta meglio sia prima che dopo. Poter fare ciò salendo sul palcoscenico e trovando ogni volta un punto d’intesa con il pubblico su queste cose, indicando l’argomento e giocandoci sopra, è questo il GIOCO che ho iniziato a fare per GIOCO e per GIOCO continuo a fare.
Il suo teatro, quindi, un’esperienza condivisa e condivisibile.
Esatto! Mi trovo sul palcoscenico per raccontare cosa mi passa per la testa in quel momento, in quel periodo, in quella stagione. Non è un caso, quindi, che più che pensare a mettere in scena un testo teatrale, la forma è quella del monologo in cui racconto sensazioni, sentimenti che sento nell’aria; che sento per me e che credo sentano altri.
Un teatro sull’uomo e per l’uomo, com’è d’altronde il suo ultimo spettacolo “La giovinezza è sopravvalutata”.
Questo spettacolo, dopo una quarantina d’anni, mi piace in modo particolare. È vero che, è sempre l’ultima creatura quella a cui ci si affeziona; ma questo arriva in un momento in cui posso fare un bilancio; posso parlare degli anni passati; della giovinezza e della non giovinezza; della terza età. Argomento, quest’ultimo, sentito da molti visto che siamo in Italia la seconda nazione per percentuale di anziani. Ma è un discorso, oltretutto, che funziona anche con un pubblico giovane. Chi ne viene male in particolare da questo monologo siamo noi maschi: una delle cose più importanti, se si vuol invecchiare bene, è aver cura di se stessi. Le donne, in questo, sono molto più brave di noi; più responsabili. Tutto questo è diventato così materia di gioco in questo monologo scritto con Marco Vicari e con la regia del mio quasi coetaneo, Gioele Dix, con il quale parlare di urologo e prostata è stata una bellissima e divertente avventura!
Il suo d’altronde un gioco alla consapevolezza; quella consapevolezza che si acquisisce con il passare del tempo e che ti fa assaporare la vita in maniera differente.
Una cosa importante è arrivare alla cosiddetta terza età mantenendosi curiosi della vita e questa è la lezione di uno degli inventori della geriatria, il Prof. Francesco Maria Antonini, che a Firenze alla fine degli anni Cinquanta rivestiva la cattedra di geriatria e gerontologia. La vecchiaia è una bellissima stagione; è la stagione della creatività, della curiosità, della fantasia, in cui si riesce a tornare anche bambini. È necessario quindi mantenersi curiosi e mai tirare i remi in barca; seguitare a guardarsi intorno e avere viva dentro di sé la capacità di INDIGNARSI per le cose della vita che non vanno per il verso giusto. D’altronde Sant’Agostino stesso aveva detto che «la speranza ha due figli: l’indignazione e il coraggio»: l’indignazione per come vanno le cose e il coraggio di cambiarle. Se hai queste dentro di te, puoi avere anche 150 anni e non sarai mai veramente vecchio.
Giovinezza e vecchiaia, due metri di giudizio anagrafico. Alla fine nulla vieta che chi sia meno giovane non possa essere in sé ancora un ragazzo; ma allo stesso tempo chi giovane aver acquisito quella consapevolezza e leggerezza che si ha da più adulti.
Beh si, anche se io stesso vedo che la trasformazione c’è stata: da quando ho iniziato che sono salito su un palcoscenico per la grandissima voglia di raccontarmi e di trovare con il pubblico una condivisione ed un modo di ridere e togliersi dei pesi dal cuore – prima ancora di sapere cosa volessi dire su quel palcoscenico – mi trovo adesso con una voglia maggiore di leggerezza. Parliamo, sì, di tutto ma senza mai voler fare lezioni. Parliamo delle nostre debolezze, delle nostre paure, dei nostri errori, di ciò che ci rende umani e cerchiamo di giocarci sopra e soprattutto di riderci sopra.
Ad oggi, che è arrivato un po’ ad un bilancio della sua vita. Cosa direbbe, se lo avesse, al suo Io giovane?
Come ne parlo nello spettacolo, il grande regista Mario Monicelli aveva dei consigli di vita importanti sempre con la sua straordinaria ironia. Lui, spesso e volentieri, amava dire «la vita è un balocco» alzando il dito indice di una mano a mo’ di ammonimento. La vita è un balocco voleva dire che non ha senso prendersela delle cose che non hanno importanza; darsi troppa importanza; prendersi troppo sul serio, perché è tutto un gioco. La vita va vissuta con la giusta, necessaria e indispensabile leggerezza. Quando si è giovani ce la prendiamo troppo per cose che il giorno dopo, il mese dopo non hanno motivo di essere ricordate. Non è un caso che adesso sto facendo il reading di Italo Calvino, maestro di leggerezza di vita. Dietro alle sue storie, ai suoi romanzi c’è uno scambio straordinario di profondità, poesia, ironia e leggerezza. Leggere Italo Calvino è un ottimo farmaco antidepressivo. Leggerlo in pubblico, d’altronde, aumento questo suo effetto perché lo vedi poi riflesso su di esso.
Immancabile nel suo monologo in scena questi giorni, è il suo distintivo tocco satirico. Crede che la satira di oggi sia cambiata rispetto a quella di ieri?
Devo dire che ogni autore satirico ha la sua storia. Io sono legato sempre ai maestri (Altan, Laura Pellegrini, Sergio Staino). La satira è una lettura delle cose che accadono, della vita, necessaria e vitale. Ecco, a me piace la satira – e quindi anche la comicità – quando è necessaria; quando parte da un bisogno: di fronte alla realtà cercare di capire cosa sta succedendo e ridere di ciò che succede è un modo per capire, afferrare il quadro del momento. Ridere – in particolare in teatro – è poi anche un modo per sentirsi meno soli.
Conclusa questa stagione con “La giovinezza è sopravvalutata”, vi sono già futuri progetti in serbo?
Sto già preparando il mio prossimo monologo – visto che il gruppo funziona – sempre con la regia di Gioele Dix ed il supporto di Marco Vicari. Poi farò questo reading di Calvino con due musicisti jazz (uno alla tromba; l’altro al contrabasso) che danno una bellissima cornice alle pagine di Italo Calvino.
Dandoci così appuntamento al suo prossimo ritorno sulle scene romane, ricordiamo le ultime imperdibili repliche de “La giovinezza è sopravvalutata”, ancora in scena al Teatro Vittoria fino a domenica 12 marzo.