Marionette della vita e della morte
Pluripremiato (in Cile, Belgio, Polonia) è approdato anche in Italia Tchaika, del duo Belova/Iacobelli, rispettivamente russo belga e cilena. Un magico lieve ironico poetico esempio di teatro di figure. La radice del genere affonda nelle sacre rappresentazioni di fine cinquecento, ma è solo col novecento che si afferma in tutta la sua originalità espressionistica, dove il sortilegio scenico consiste in un uso organico della marionetta, che fa corpo quasi metafisicamente con l’attore che la anima. Se ne può vedere la base già in un testo di Von Kleist – Sul teatro di marionette (1810) – dove parla di una superiorità e grazia metafisica della marionetta rispetto agli attori, in quanto uomini non più puri ed edenici, ma contaminati dalla coscienza. Sulla stessa lunghezza d’onda, ma per novecentesca ed avanguardistica polemica verso il naturalismo, si porrà Gordon Craig, col suo L’attore e la supermarionetta (1908), dove la marionetta veniva ad essere l’esaltazione della forma e dell’artificio, in opposizione al corpo naturalistico ed emotivo, imitativo, dell’attore in carne ed ossa.
Come mettere in questa cornice la performance del duo, apparentemente il semplice racconto – tra umorismo e pietà – di un viale del tramonto di un’attrice al suo ultimo debutto, col Gabbiano, di Cechov?
Teoricamente siamo anche nella mise en abime , nel teatro nel teatro, dato che a sua volta il personaggio affidato all’attrice è Arkadina (nel gabbiano vecchia attrice al tramonto), ed il figlio – da lei osteggiato e deriso (e poi suicida) – è drammaturgo a sua volta, e inscena la morte della natura. Potremmo dire allora, con Kantor, il teatro e la morte, il teatro della morte. Ed è solo nella morte che cova la vita.
Così, se superficialmente l’attrice al tramonto (marionetta che fa corpo frontalmente con la performer), è comica e bisbetica – tra cocciutaggini paure svampitaggini alzheimer – di fondo la anima la pìetas paziente della performer, che la dirige corregge rincuora sprona.
Ora invisibile e ventriloqua, ora facendo sporgere il proprio volto in un dialogo faccia a faccia, sdoppiando anche la voce.
Quindi il tema è quello del doppio e della morte, ed assistiamo in realtà ad un teatro delle ombre. Ad un teatro metafisico, se il teatro è l’ombra della vita, e gli attori (vedi Macbeth) ombre che camminano.
Si può pensare del resto anche al metafisico teatro delle ombre orientale, di cui la marionetta è una carnale versione occidentale.
E ancora.
L’attrice marionetta polemizza con la scenografia minimalista: un tavolo, una poltrona, un telo che dall’alto divide la scena, piena a sinistra, vuota a destra.
Niente lago o giardino. Niente naturalismo.
Tutto bianco – oggetti, cose – come la neve ed il silenzio, come la pagina bianca, come il gabbiano, in Cechov simbolo di vita e di morte, di purezza ferita, di sogno.
La scena dunque è una pagina bianca da scrivere, ma anche il vuoto della sua memoria.
Così, se da un lato poi dialoga e si scontra con oggetti che incarnano i personaggi (un peluche-figlio, un panno rosa-Nina), a dimostrazione che tutto si può animare, dall’altro, in momenti di vuoto, rimane isolata scenicamente, accanto ad un raggio di luce verticale, nel buio, che reduplicando il telo separatore bianco, visualizza un pulviscolo discendente.
Neve? Polvere del tempo? Tutto è polvere e gelo? Dissolvenza …
Accade ad inizio spettacolo, nel vuoto a destra, come vuoto pre-nascita, e riaccade a metà, quando in un momento di rabbia devasta la scena, creando il vuoto anche a sinistra.
E a destra riemerge quando – il vuoto essendo vuoto di memoria – incarna, con ampia gonna rinascimentale, prima Amleto, e poi la madre di Amleto, con sensi di colpa, e da uccidere.
Perdita di memoria. Ma anche doppio e simbolo.
Come Arkadina uccide amore e teatro nel figlio (per lei minaccia di tramonto), così poi madre e figlio nell’Amleto sono morte reciproca.
Vuoto e pieno. Bianco e nero-buio-vuoto. Realtà e finzione.
E nel culmine della crisi più decapitazioni.
Più volte la testa viene staccata alla madre castratrice, che sia Arkadina o la madre di Amleto. Questa è la morte plateale del personaggio, la nudità del teatro, ma prelude alla vera morte-metamorfosi.
Alla nudità, che si fa principio di resurrezione.
Nel massimo dello scoramento l’attrice marionetta si fa curva figura fetale, su cui si china una figlia-madre-performer.
Un gruppo a fondo scena, nel buio. Un fuori scena di nudità realtà fragilità.
La marionetta si toglie la parrucca, e chiede di essere accettata come persona.
Ma non è dall’umiltà, dalla nudità, che rinasce il grande attore, come la fenice dalle ceneri? Ed infatti da qui parte una rinascita, dove essendo l’attrice tutta dubbio fragilità scoramento, tocca alla performer nascere al protagonismo, come trainer e supporter.
Definisce la propria creatura coraggiosa, e questo il suo ultimo grande spettacolo, portandola alla riuscita.
Naturalmente tutto ciò descrive una linea interpretativa, e non rende che pallidi fantasmi della grazia tragicomica e gestuale che informa il tutto della sua fantasmagorica poesia, tra tralucenza e fantasmi sonori, tra tutti il rumore di vetri rotti che annuncia la morte di Kostantin, il figlio, non più macchiettistico peluche della madre.
E nell’altalena si giunge alla fine con un sorriso, e l’applauso è lungo e oceanico.
Tchaika, liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov – con Tita Iacobelli – regia Natacha Belova e Tita Iacobelli – scenografia Natacha Belova – luci Gabriela González, Christian Halkin – musica Simón González dalla canzone La pobre gaviota di Rafael Hernández – in consolle Gauthier Poirier – Teatro India 21-22 maggio 2024
Foto di copertina: Tita Iacobelli