Un’intensa e visionaria interpretazione del mito di Antigone, delle sue persistenze, e delle sue adiacenze nella contemporaneità
Massicci e spettrali, i sette pannelli empiono lo spazio, si riflette su di loro l’ombra scura di un’impiccata. Il corpo di Antigone è sospeso a mezz’aria, il suo suicidio, la radicale risposta all’imposizione del nòmos, alla tirannia di Creonte, la tragedia si dispiega dalla sua fine.

Prima mondiale per l’Antigone del coreografo norvegese Alan Lucien Øyen, ospitata dal Teatro Argentina di Roma dal 22 al 24 luglio e magistralmente interpretata dal sodalizio di alcuni danzatori del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch con quelli della compagnia, Winter Guests nell’ambito del Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato.
Siamo in uno spazio aperto– l’ingresso di due uomini spezza il silenzio e distoglie lo sguardo, fino ad allora atterrito, dello spettatore. Appoggiandosi all’altro, il cieco Tiresia tasta lo spazio, e ne domanda descrizione: oltre le porte di Tebe c’è uno spazio vuoto, il resto sono solo macerie!
Limen terrificante tra il prima e il dopo, tra la fine della tragedia e l’inizio dell’orrore, la verticalità di quelle porte sancisce l’ingresso del presente, del vuoto, di una vita che scava e rosicchia sé stessa fino ad annichilirsi. Al di là di quei pannelli, varchi spaziali ma anche temporali, vi è l’immagine in-edulcorata dell’orrore, della guerra, di una disumanità che trafigge e si priva di ogni forma dell’ethos.
Una forza centripeta, lenta, faticosa sembra trascinare gli altri corpi al centro del palco, l’epicentro rimane il corpo esanime, simulacro d’abominio e memoriale di una giustizia violata, perpetrata nel tempo. E mentre la prima coreografia muove i danzatori in movimento corale e straziante, il passato collide vertiginosamente col presente, il già accaduto si proietta con violenza nella contemporaneità, il tempo stesso si piega all’orrore.
La musica cambia sul dinamismo di Eteocle e Polinice, evocante un gioco d’infanzia, una lotta ancestrale agita sul margine labile che separa l’amore fraterno dalla sopraffazione. I due corpi si prestano ad un movimento di iterata caduta, eternamente interconnessi, in una dinamica di incastri ed equilibri.
Poi Antigone, la narrazione danzata del suo strazio, il suo corpo si flette nell’iterazione di un movimento di estensione, violentemente arrestato da catene invisibili: una variazione continua, accompagnata da una musica che si fa più sinistra, coniugata ad un movimento di ascensione e caduta capace di restituire l’interruzione della parola, la violenza con cui la legge non scritta viene ferocemente messa a tacere.
Anche lo spazio si flette nella duttilità delle scene. I pannelli rigidi si scopriranno mobili, capaci di trasformare lo spazio e la sua percezione, di modellare le atmosfere. Su tale continua metamorfosi echeggia la collisione tonante fra il prima e il dopo, quando quelle che in origine erano le porte centrali, convergono fino ad unirsi, quando una di esse si ribalta verso l’esterno tramutandosi in un letto.
Alexa, qual è la strada per l’oltretomba?– nel presente Nazareth Panadero interpreta sé stessa, si stende sul letto rivolgendosi al simulacro dell’intelligenza virtuale, personificata da una figura rannicchiata sull’orlo del proscenio. Nazareth, sono qui. Con lo stesso movimento invertito il letto scompare, il dialogo si rivolge alle inconsistenti effigi della contemporaneità e ad esse chiede aiuto per sviscerare il senso dell’esistenza e della morte. Tra morte e vita si situa l’amore, un amore declinato in tutte le sue forme, sottoposto all’alternanza inesorabile tra abbandono e paura, tra apertura e chiusura. Perseguitato, persistente.
Sei egoista, sei un’isola, potresti distruggerti! – un grido lapidario che oltrepassa il tempo, rivolto all’uomo di ieri, a quello dell’oggi. La voce fuori campo rimbomba sovrapponendosi al movimento di un uomo, che tenta di ribellarsi alla forza inesorabile che lo attenta e trascina. Di nuovo i pannelli agiscono la metamorfosi muovendosi simultaneamente: «le mie cellule si mangiano a vicenda (…) sono putrido, ansioso, irrequieto, zozzo, cado a pezzi lacerato, dormo nella sabbia, e i fiori del deserto mi sbocciano nelle ossa!».
La figura di Antigone si sdoppia e si moltiplica in un elenco senza fine. Nomi di donne, collegate da un destino orrorifico, innestato solo e unicamente dalla parola no. Antigone è colei che disse no, e il no è il fonema, il definitivo che scaglia la tragedia.
Infiniti nomi scritti su di un pannello, divenuto ora lavagna di morte e di orrore, superficie scritta per una trascrizione dell’efferatezza. Infinite sorti, e un destino sempre uguale che si ripete, di un esito scaturito dalla negazione di un nomos scritto a priori, calcificato e marcescente.
In apparente discontinuità col primo, l’inizio del secondo atto che comincia sull’orlo del proscenio, a sipario chiuso, come a suggerire un foro, uno spiraglio, che inesorabilmente coinvolge il pubblico, lo pone per un momento in adiacenza con ciò che accade sul palco.
Il senso di temporaneo straniamento suggerito dai danzatori, che in fila compatta articolano le loro voci nei suoni onomatopeici degli uccelli; poi la parentesi – che è parte integrante del testo-che vede Julie Shanahan rivolgersi alle donne illustrando loro il simbolo di aiuto di fronte alla violenza, e ancora la risposta dell’amore, la danza pesante e immensa dell’amore. Si, queste sono solo storie d’amore.

E sull’amore la scena si chiude, è al pubblico se ne chiede la pronuncia: «Ricordati che sei amato». Mentre la telecamera inquadra il volto dello spettatore, ricordati che sei amato. E in un rituale iterato, solenne, la consapevolezza dell’amore si proietta sulle sette porte di Tebe.
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Antigone – regia e coreografia Alan Lucien Øyen – con: Enoch Grubb, Douglas Letheren, Pascal Marty, Antonin Monié, Nazareth Panadero, Héléna Pikon, Julie Shanahan, Fernando Suels Mendoza, Meng-Ke Wu, collaboratori creativi Daniel Proietto, Andrew Wale – scene Åsmund Færavaag – costumista Stine Sjøgren, luci Martin Flack, suono Gunnar Innvær – video Mathias Grønsdal – responsabile tecnico Chris Sanders – direttore di scena Daniel Hones – responsabile costumi Anna Lena Dresia – produttore esecutivo Essar Gabriel – produttrici Ornella Salloum / per winter guests: Syv mil v/Tora de Zwart Rørholt / Ingrid Saltvik Faanes – foto di scena Mats Bäcker – immagine Ghost-Copyright Alan Lucien Øyen, produzione Winter Guests – in coproduzione con Teatro di Roma – Teatro Nazionale – The Norwegian Opera and Ballet, con il sostegno di Arts Council Norway, Città di Bergen, supporto per lo spazio prove gentilmente offerto da Pina Bausch Zentrum – Teatro Argentina dal 22 al 24 luglio 2025