di Laura Dotta Rosso
Siamo nel futuro: anno 2089. La storia non ha insegnato nulla e un nuovo muro è stato eretto per poter governare e controllare l’essere umano. Il vecchio continente europeo non esiste più, ora c’è un nuovo stato: Eutopia.
Sono presenti nuovi confini, nuove regole di immigrazione che trasformano gli umani in bestie. Contano i numeri, la nazionalità da cui si proviene. Si marchiano ugualmente le persone, è solo cambiato il modo di farlo: il marchio a fuoco non c’è più, ora si usa un computer legato al polso che indica quanti crediti ci sono rimasti.
Ogni azione che svolgiamo, fa decresce il numero sul display: vogliamo bere? Via dieci crediti…vogliamo mangiare? Via venti crediti. Essere liberi, uscire dal muro, dipende da un coefficiente di accessibilità: ogni persona ne possiede uno, e più si sembra disperati, più il numero cresce e le possibilità di accedere ad una nuova esistenza, sembrano concretizzarsi. Ci si deve spingere al limite, bisogna essere disposti a qualsiasi azione, non si dovranno più percepire gli individui come anime ma come ostacoli per una vita serena, si dovrà mettere in dubbio la felicità: “non so più che cosa sia la felicità, perché è in nome della felicità che abbiamo rovinato le persone che amiamo”.
Attraverso una stanza buia, due sedie, un angolo bar e una radiolina, lo spettacolo “Oltre il muro” in scena dal 5 al 17 novembre allo spazio 18 a Garbatella, con testo di Massimo Roberto Beato, la regia di Elisa Rocca e Jacopo Bezzi, riesce a farci ripensare all’errore che commettiamo, pensando che gli eventi passati non si possano più ripresentare.
I due attori in scena, rappresentano Aliaksei, un ragazzo russo e Dunja, una ragazza serba rimasta orfana, in cerca di una vita vera: le loro realtà si intrecceranno e insieme si augureranno di ingannare il sistema. I due interpreti Sofia Chiappini e Pavel Zelinskiy riescono a centrare l’obiettivo di non distrarre lo spettatore, unico tasto dolente, una recitazione, a tratti un po’ meccanica, che fa risultare meno credibili alcuni momenti. Le frasi in serbo e russo non risultano noiose, ma anzi molto funzionali alla credibilità dell’azione
Il gioco di luci risulta incredibile per uno spazio scenico così limitato; le ombre riescono a rievocare sentimenti colmi di potenza, i movimenti degli attori immergono il pubblico in immagini sempre nuove. Lo spazio scenico viene usato in tutte le sue forme; negli angoli, strisciando sullo sfondo, scomparendo dietro la porta, stando a meno di un metro dal pubblico. I canti serbi , provenienti dalla radiolina nell’angolo del palco, rievocano quelli ebraici e un brivido intenso sfiora la platea.
Il sangue cosparge la mano di Aliaksei e si fa fatica a non empatizzare con quella emozione.
Non si comprende che sia stato un cambiamento climatico a causare tutto questo dolore e, anche i costumi, non fanno pensare a un futuro così lontano. Nadezhda significa speranza, quella per cui tutti noi dovremo lottare per fare in modo che non si ripresentino più situazioni così gravi nel 2089.