Lo spazio scenico riluce di bianco in ogni sua parte, evocatore di un luogo altro, sito nella cavità incircoscrivibile della coscienza. Delineandosi come agghiacciante traiettoria nei fondali della cognizione umana, Nottuari, ispirato alle opere di Thomas Ligotti, abita la scena del Teatro India di Roma fino al 5 marzo per la regia di Fabio Condemi. La riemersione della componente espressionistica propria dello scrittore statunitense, assume così i tratti di un’indagine che, risalendo all’origine dell’orrore ne recupera l’archetipo irriducibilmente connesso al processo di visione.
Lo spettatore interpellato: l’esperimento chiama in causa la coscienza sopita di chi guarda
Nella scelta dell’esperimento come cifra introduttiva del tragitto di visione, la coscienza dello spettatore è volutamente ribaltata, catapultata senza preamboli al centro del processo spettacolare. Se, nell’atto di prendere posto in sala, i guardanti credevano di acclimatarsi al loro naturale punto di vista, la loro prospettiva appare fin da subito rovesciata, a pochi secondi dall’inizio della rappresentazione.
A mettere in moto il processo non è l’imperativo di una voce umana ma la scritta che, nero su bianco, compare sulla lavagnetta, innestando l’assuefazione: esortato a guardare un’immagine, lo spettatore ne vede lentamente sfocare i contorni eppure “… non è l’immagine a cambiare ma solo ciò che vedi tu; l’immagine non è mai scomparsa davvero.“
Sottoposti ad un cortocircuito dello sguardo, funzionale ad alimentare la portata della suggestione, gli spettatori, ora disarmati, si predispongono ora a entrare nell’accadimento scenico che è veicolo di una dimensione i cui tratti allucinatori sembrano confondersi con la concretezza del reale.
Lo spazio ipnagogico dell’architettura scenica
Che la spazialità che sottende la rappresentazione faccia riferimento ad un luogo concreto è un’ipotesi presto screditata dal momento che nella mente dell’osservatore sembra configurarsi gradualmente l’idea che tutto ciò che accade sulla scena, stia verosimilmente accadendo nello spazio anamorfico e parallelamente multiforme della sua coscienza. Ad accentuare la portata della suggestione contribuisce non solo la musica originale di Paolo Spaccamonti e le sonorità di Andrea Gianessi, ma anche il ricorso a una scenografia (Fabio Cherstich)costruita sullo scorrimento di cubi mobili dalle pareti vitree che fungono da contenitori per gli orrorifici micro-racconti che si dispiegano al loro interno.
I movimenti lineari delle strutture architettoniche, predisposte ad una successione di avvicinamenti e allontanamenti, ricalcano un meccanismo zoomante e varifocale che conduce l’occhio dello spettatore ad essere irrimediabilmente direzionato. Differentemente, il verificarsi degli gli altri frammenti scenici avviene al di là di una piccola stanza al centro della platea: ogniqualvolta la tenda atta a coprirla si scosta, lascia intravedere una diversa scena di orrore.
Personaggi o simulacri?
Al pari dello spazio, i cui segmenti sembrano ricondurre all’interno allucinatorio della nostra coscienza, così anche i personaggi, contraddistinti da movimenti innaturali e pose disarticolate, richiamano, all’apice della suggestione scenica, i prolungamenti aleatori di una percezione individuale.
Personificazioni fantasmatiche del sonno, agenti di un delirio concretamente inverificabile, le figure interpretate da Carolina Ellero, Julien Lambert, Francesco Pennacchia e Ludovica Marsilii, si muovono nel limbo imperscrutabile che separa la visione dall’incubo, l’incubo dalla realtà grottesca.
Prima testimonianza è il frame di una donna dormiente, una figura sinistra osserva il suo sonno dalla finestra, la donna si sveglia di soprassalto disturbata dal suono interferente di una radio:
“I sogni si nutrono dell’anima come i vermi si nutrono del corpo! (…)
Notte dopo notte ci portano via da noi stessi”.
Poi ancora, l’immagine di un uomo solitario che seduto, sfoglia un catalogo e accende la radio, o quella di una ragazza che, dall’interno del suo “cubo di vetro” racconta la storia di una psicosi. Quelli che dapprima si configurano come frammenti scollegati di un orrendo abbaglio notturno, andranno poi a porsi come i pezzi immancabili di un puzzle che restituisce l’immagine del legame atavico tra orrore e bellezza, un legame che si afferma nel processo di fascinazione e visione stessa dell’uomo.
Medusa come simbolo del potere mortifero dell’immagine
Era necessario un trait-d’unionche contribuisse a creare senso nel magma dell’orrore, un elemento cardine che, ponendosi al centro, si affermasse come elemento centripeto della rappresentazione.
A fornire tale ingrediente necessario è “Meditazione sulla medusa” il monologo-trattato di Lucian, studioso ossessionato dalla figura della gorgone e dalle sue interferenze sulla storia della visione.
In una carrellata di immagini riprodotte grazie all’uso di un proiettore, lo scrittore si lascia andare ad un percorso di associazioni che, originatosi da Medusa di Caravaggio, passando per Pieter Paul Rubens e per Riproduzione vietata René Magritte, giungendo al dribbling art di Jackson Pollock, delinea la Medusa come simbolo più eloquente di un orrore che affascina più di quanto sgomenti e che conduce a credere che possiamo sfuggire all’orrore soltanto nel cuore dell’orrore.