In scena all’Altrove Teatro Studio, fino a domenica 24 novembre, Irene Nemirovsky: la sfortunata autrice del celebre romanzo Suite francese e non solo; la sua vicenda umana e professionale merita da sola una pièce teatrale, tanto ricca di eventi e produzioni letterarie è stata densa quella vicenda. Basti solo ricordare che, ucraina di nascita, ha girovagato per mezza Europa (acquisendo, appena diciottenne, ben sette lingue parlate) per tenersi al riparo, insieme alla famiglia, dalle paventate persecuzioni della nascente rivoluzione bolscevica. Fino ad approdare al sicuro rifugio parigino, laddove avrebbe sfornato –in lingua francese- una febbrile produzione letteraria, fatta di romanzi di grande respiro e di successo, come David Golder, e di racconti brevi. Il triste epilogo della sua vicenda umana, incrocia la persecuzione antiebraica del nazismo, insediatosi in terra francese e la vede avviarsi al sacrificio estremo nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1942, a soli 39 anni. Tutto sembrerebbe compiuto con la sua triste fine, ma la sua insopprimibile vocazione letteraria aveva in serbo un finale sorprendente: il manoscritto di quella che sarebbe diventata la sua opera più conosciuta, venne tirato fuori da una valigia custodita dalla figlia e pubblicato nel 2004, diventando subito un best seller, da cui fu tratto un film di altrettanto successo nel 2015.
La pièce in scena in questi giorni all’Altrove Teatro, sembra continuamente oscillare tra l’intenzione di realizzare un biopic sulla scrittrice e quella di trarre spunti biografici prendendo invece le mosse dalla versione drammaturgica di alcuni dei suoi racconti, laddove è maggiormente riconoscibile l’insistenza sui temi caratteristici del suo narrare: il conflitto generazionale (la sua vita l’aveva particolarmente temprata in quello con la madre, così diversa da lei e scarsamente effusiva) e la natura effimera delle relazioni d’amore.
Così il gioco “estrattivo” al quale si abbandona l’allestimento è quello di partire da una scelta di stile che l’Autrice vorrebbe imprimere a tutta la sua produzione: scriverà attingendo a piene mani nella forma cinematografica, per restituire valore ritmico al suo narrato, grazie all’inserzione di particolari visivi e sonori, a simulare le carrellate e l’efficacia espressiva di quell’avito linguaggio.
I personaggi sulla ribalta si mostrano come un défilé: così troviamo Susanne, una donna sposata, impegnata nel malinconico compito che si è imposta di inventariare tutti i beni mobili della sua casa coniugale, per rivenderli, senza nessun rimpianto, dice lei, perché testimoni di un rapporto coniugale ormai spento. Ma l’occasione dell’inventario riserva la sorpresa di lasciar rivivere i ricordi legati a quegli oggetti, come fosse una ripicca delle cose, che rivendicano una propria potenzialità vitale a dispetto della consistenza inanimata che li avvolge. E poi la prostituta Ginette e la giovane Gisele, al confronto casuale dentro un bar, la prima contrapponendo all’altra la propria solitudine irredimibile, connessa con la propria perduta giovinezza e con quella dell’amore della propria vita, l’altra, più giovane, cullandosi dentro l’illusione di un appuntamento mancato proprio in quel bar, con chi ha deciso di fare altre scelte relazionali. E ancora un bar e ancora un’altra prostituta:
una giovane al confronto con una donna matura (ça va sans dire, la madre, professionista del piacere dentro il Willy’s bar). La ragazza ha lasciato la casa di provincia della zia dove la madre l’aveva alloggiata (non sembra di capire per proteggerla, ma per consentirsi piuttosto una libertà d’azione priva di limiti e censure). Ora la ragazza è stanca del proprio soggiorno lontano dalla vita: vuole fare come lei, vivere come la madre, anche facendo la prostituta e non accetterà alternative fungibili proposte dalla madre. La contesa è quella di vivere la sua stessa vita. In fondo (a proposito delle tracce autobiografiche sparse nei suoi racconti) la medesima tensione che ha percorso per intero la vita di Irene Nemirowsky.
Il regista e adattatore del testo Luca De Bei è uno dei drammaturghi italiani più affermati e conosce bene le regole del palcoscenico: non deve essergli sfuggito che la pagina scritta, per quel processo di immersione che impone al lettore, è faticosa da portare a teatro. E quindi efficace risulta la soluzione narrativa prescelta, che riesce a sostenere senz’altro il meccanismo dell’attenzione nello spettatore.
L’agito e il narrato è affidato al Gruppo Tàpodes, formato da 4 bravissime e giovani attrici, disposte a ricoprire più ruoli, evocando di volta in volta figure materne, ragazze o prostitute, ovvero la stessa Nemirovsky: Paola De Crescenzo, Aura Ghezzi, Roberta Infantino, Carla Recupero. Le scene sono di Valeria Mangiò, i costumi di Lucia Mariani.