Non si vuole intendere che il teatro è soprattutto spettacolo

Ieri sera – e per fortuna accade raramente – non ho visto un pessimo spettacolo, non ho assistito neanche a un lavoro sbagliato o fatto male; peggio, molto peggio: mi sono sentito mortificato da un evento che offende il teatro. E siccome il sottoscritto non ha né voglia né desiderio di maltrattare qualcuno, stavolta, per correttezza, non farò nomi, omettendo finanche il titolo dello spettacolo. Dirò soltanto che – nelle intenzioni – doveva essere un omaggio a Giorgio Gaber. Un tributo, a vent’anni dalla scomparsa, di cui l’artista milanese probabilmente non ne sarebbe troppo orgoglioso.

Nella mia carriera di spettatore (mai) addormentato, ho visto Gaber al Giulio Cesare con «Il grigio», poi al Nazionale con «Il teatro canzone», e lo vidi anche in uno straordinario concerto a Milano, la sua città: teatro gremito, spettatori di ogni età tutti festosi e in piedi; lui sorridente e felice, non era mai stanco; pubblico in visibilio, mentre, con lo sguardo incantato dell’eterno fanciullo, proponeva bis a volontà; non finivano mai né le canzoni né gli applausi, e si restava tutti lì, stipati in platea fino a oltre la mezzanotte. L’artista, sempre al centro della scena, vivace, senza mai sedersi, non distoglieva gli occhi dal suo pubblico, quella vista lo inebriava: con lui, solo un microfono e la chitarra a tracolla; i musicisti erano sempre alle sue spalle. Per lui c’erano solo gli spettatori e dal palco, dopo ogni pezzo, chiedeva: «Ne volete un’altra? Tranquilli, ne conosco più di duecento a memoria. Possiamo stare qui fino all’alba». Pausa. Quindi, sussurrando al microfono: «Se mi danno il permesso!» Cantava, cantava e rideva, e completamente sudato, ma sempre in giacca e cravatta, talvolta correva in quinta a bere un sorso d’acqua. Questo, in sintesi, era Giorgio Gaber, quello che ho visto io.

Ieri sera, invece, oltre al microfono, in scena c’era un leggio e dietro una sedia, e in terra una bottiglietta d’acqua. Un leggio per Gaber, e perché? Perché l’interprete non sapeva una sola parola a memoria e – Dio mio, mi vergogno per lui – non sapeva neanche leggere. E non dico una bugia: s’è impaperato almeno dieci volte. Lascio a voi immaginare il giudizio sui ritmi di recitazione che non esistevano. Pensare di interpretare Gaber, senza avere tempi e toni che l’ironia impone, è un’assurdità. Ma perché, mi domando, non accorgersi che qualcosa non funziona; che il pubblico non reagisce e deve essere spronato per lasciarsi andare a un applauso? L’interprete, imperterrito, invece, continuava a leggere, sbagliando le vocali, incespicando nelle consonanti, prendendo male i respiri e continuando ad agitare le mani con le «ciambellette» (cioè formando il cerchio con le dita unendo il pollice con l’indice). Un vero delirio!

E perché la bottiglietta d’acqua? Semplice! Perché ad ogni pezzo c’era un sorso da tracannare davanti al pubblico (una grossa mancanza di rispetto), con tanto di rumore della plastica della bottiglia amplificato dal microfono.

Poi, a un certo punto, siccome la fatica lo ha sopraffatto, l’esecutore si è tolto la giacca, s’è arrotolato le maniche della camicia, esibendo vistosi tatuaggi sulle braccia, e ha girato un’altra pagina e un’altra ancora, raggiungendo un grado di spossatezza che lo ha costretto, poco dopo, ad abbassare il leggio, ad accorciare l’asta del microfono e a sedersi su una sedia.

«Non si vuole intendere che il teatro è soprattutto spettacolo», scriveva Pirandello. E come può un signore in maniche di camicia, seduto su una sedia, nascosto da un leggio, senza saper né leggere né parlare, come può costui pensare di fare spettacolo? Una vera follia! Ah, dimenticavo, c’era pure un regista.

Mi si perdoni lo sfogo.