Nessun Godot è mai sceso quaggiù

Tra le epoche più complesse e, a tutt’oggi, maggiormente fitte di mistero della cultura occidentale, c’è quella tardoantica, che coincide con i secoli finali dell’egemonia imperiale di Roma; epoca che ci riguarda in profondità, non solo per una certa somiglianza dal punto di vista socio-economico ma che, ancor di più, sotto il profilo artistico sembra accumunare il gusto tardoantico a quello oggi dominante. Un certo piacere, insomma, per il revival, le citazioni, un gusto vintage e dissacrante ricco di metafore e rimandi. Marco Zambon ha dato alle stampe nel 2019, a proposito di questo affascinante tema, un’opera assai particolare intitolata “Nessun dio è mai sceso quaggiù”, che indaga la resistenza culturale operata dai pensatori pagani contro il disfacimento identitario che il nuovo mondo cristiano stava portando avanti, fallando in profondità la straordinaria potenza imperiale fin dentro il suo patrimonio genetico. Ma cosa ha a che vedere tutto ciò con la quanto mai celebre pièce beckettiana “Aspettando Godot”, in scena al Teatro Vascello dal 31 gennaio al 5 febbraio?

Poco o nulla, si direbbe, eppure nella regia di Theodoros Terzopoulos il Dio della religione cristiana – e poco importa, in questo caso, che si tratti di un Dio orientale o occidentale, dato che le invadenti partiture sonore si richiamano tanto alla religiosità cattolica quanto a quella ortodossa – sembra sostituirsi costantemente all’enigmatica figura di Godot. Un padre, ma anche un Dio-padrone, esigente fino all’umiliazione, che crocifigge e abbandona gli uomini gettati tra le anguste fila della trincea.

Quella che Terzopoulos compie è sì una lettura radicale di Beckett, eppure non nel senso di quel disvelamento della verità, dell’essenza delle cose che, invece, gli è proprio nella tragedia e che lo ha consacrato a ‘maestro’. La sua radicalità cade qui vittima del pensiero beckettiano della crisi, ‘asiano’ per certi versi nella sua ipertrofia metaforica e che soltanto nel momento in cui è colto nel suo carattere più equivoco dispiega veramente tutta la sua potenza. Terzopoulos è e rimane un grande maestro del Novecento e, nondimeno, il bisogno di dare delle risposte definitive lo costringe a una sovrapposizione di significati tanto fitta da non lasciar essere la parola beckettiana ciò che è, persino nella sua retorica e contraddittoria verità.

E allora si può dire che nessun Godot è mai sceso quaggiù in un’accezione molteplice: perché se è vero che qualcosa di quel Dio monoteistico ancora vive in Godot, dobbiamo pur sempre tenere a mente, in quanto spettatori, che un Godot, un po’ come credevano i pagani del Dio dei cristiani, non può e non potrà mai scendere quaggiù. La distinzione è in questo senso molto sottile: per quanto, indubbiamente, Godot somigli a quel Dio che avrebbe dovuto salvare i deboli dalle guerre e le vittime dalle ingiustizie – con un richiamo lampante di Terzopoulos al conflitto russo-ucraino – ciononostante Godot rimane un’essenza, un concetto, un qualche cosa che vive soltanto nelle parole di Beckett e che, forse, somiglia più alla speranza, che non a un vero e proprio prodotto antropomorfizzato della cultura occidentale.

Passiamo ora, però, all’allestimento vero e proprio. L’interpretazione attoriale si affida al disegno registico, in un’ottica di straordinario – eppure sempre vigile e consapevole – abbandono di fronte all’ambiguità evanescente e, nondimeno, carnale della parola beckettiana, in cui spicca, tra gli altri, la prova di Giulio Germano Cervi (Lucky). Una performance che, nel suo complesso, vive costantemente di un’allure corale, comunitaria; ma che, nella sua pure indubbia eccezionalità, rimane vittima dei ‘segni’ iconografici che campeggiano sulla scena di Terzopoulos. Si badi bene, non si tratta qui di prendere le distanze dalla religione cristiana – perché, in fondo, una secolarizzazione è pur sempre in atto nella nostra cultura e il bisogno di spiritualità di cui sono costantemente alla ricerca gli spettatori contemporanei rimane un problema aperto.

Degno di rilevanza è, piuttosto, nella riflessione che a freddo gli spettatori sono chiamati a fare, cosa aggiunga quell’iconografia ipertrofica della Croce che campeggia, come uno stendardo, nel mezzo dell’ ”Aspettando Godot” di Terzopoulos. Iconografia affiancata, poi, da un gusto più concettuale per l’arte che mette in scena il concetto di installazione con un riferimento più o meno esplicito, tra gli altri, alle opere di Damien Hirst; e che si presenta come parte integrante di quella crisi che era stata propria già del tardoantico, in cui il massimo della violenza e della serietà si accompagnavano con un’atmosfera più ‘giocosa’. Un gusto serio e, allo stesso tempo, macabro per la violenza che si combina in Terzopoulos in un gioco tra immaginazione e intelletto e che, però, non riesce pienamente a liberare se stesso.

di Samuel Beckett

copyright Editions de Minuit
traduzione Carlo Fruttero

regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos
con (in o.a) Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano
e Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola
musiche originali Panayiotis Velianitis
consulenza drammaturgica e assistenza alla regia Michalis Traitsis
training attoriale – Metodo Terzopoulos Giulio Germano Cervi
scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT
responsabile dell’allestimento e del laboratorio di costruzione Gioacchino Gramolini
costruttori Davide Lago, Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia, Leandro Spadola
scenografe decoratrici Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Martina Perrone, Bianca Passanti
progettazione led Roberto Riccò
direttore tecnico Massimo Gianaroli / direttore di scena Gianluca Bolla / macchinista e attrezzista Eugenia Carro / capo elettricista Antonio Rinaldi / fonico Paolo Vicenzi / sarta realizzatrice e sarta di scena Carola Tesolin
foto di scena Johanna Weber / ritratti Luca Del Pia
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Attis Theatre Company