SECONDA PARTE
In un articolo successivo, dedicato alla Napoli del 25 luglio 1943, si legge: «…riuscivamo a procurarci… i libri più difficili da far passare… conoscevamo già i più famosi libri marxisti, avevamo già letto «Retour de l’Urss» e «Retouche à mon retour de l’Urss» di Gide, litigavamo già coi nostri idoli letterari giudicandoli anche abbastanza sommariamente…». Dietro questi verbi coniugati alla prima persona plurale – riuscivamo, conoscevamo, litigavamo – c’erano i nomi di altri amici di Patroni Griffi, quelli del periodo napoletano, di quando, prima del ‘43, leggevano insieme i volumi proibiti dal fascismo, che il più abile di loro (Tommaso Giglio, che poi divenne giornalista, direttore del Secolo XIX, e letterato) sfilava abilmente dagli scaffali segretati della biblioteca di Napoli, dove poi, con la medesima scaltrezza, li riponeva al loro posto. Anche quel gruppo di amicizie gode del privilegio d’essere ricordata: lo scrittore Raffaele La Capria, i giornalisti, oltre a Giglio, Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson (l’inventore di 90° minuto), il regista Franco Rosi, l’attore Achille Millo, il ministro Francesco Compagna, e il due volte Presidente Giorgio Napolitano. Era naturale che ragazzi di grande temperamento intellettuale, cresciuti culturalmente durante il Ventennio mussoliniano, avessero maturato un’idea antifascista anche grazie alle teorie comuniste che giungevano dall’Est, vere o false che fossero.
Tornando al 1963, moltissimi scrittori – da Moravia a Calvino, da Alvaro a Malaparte, e perfino il Cardarelli poeta – pubblicarono diari e compendi dei loro viaggi a Mosca. Inoltre, appena un mese prima, a Parigi, il settimanale L’Express pubblicò a puntate (tra febbraio e marzo), l’«Autobiografia precoce» di Evtushenko (opera di cui Feltrinelli immediatamente acquistò i diritti, riportandola in italiano nella versione originale), scritto che scosse il mondo culturale, rivelando finalmente da una voce attendibile quanto il regime di Stalin avesse oppresso la popolazione russa e quanto avesse fiaccato le idee dei nuovi scrittori sovietici, tentando di piegarli ai dogmi e alle convenienze del Pcus. Una rivelazione improvvisa che gettò gli intellettuali di tutta Europa in una gran confusione: «… noi siamo abituati ad avere delle idee sui concetti generali di libertà, di cultura, di vita, che non accettano restrizioni, stati di necessità, compromessi», scrive Patroni Griffi in quello stesso articolo del 12 maggio in cui racconta di aver stretto la mano al poeta russo. Un gesto solitamente semplice, comune, talvolta affettuoso, talvolta convenevole e abitudinario ma che, in quel momento, invece, aveva un valore particolare, un valore storico, sociale, umano; un valore che celava la sofferenza di un popolo (trecento milioni di individui, all’epoca) che si sentì tradito per l’ennesima volta dal loro leader, Nikita Krusciov.
Occorre, quindi, ricordare, per comprendere al meglio il significato della stretta di mano tra il poeta siberiano e il nostro scrittore, che il clima politico nella nuova Unione Sovietica di Krusciov inizialmente pareva essere mutato a favore di notevoli aperture verso il mondo occidentale; tuttavia restavano chiusure ferree in molti ambienti. L’allora premier dell’Urss e leader del Pcus, che in gioventù fu il silenzioso e discreto collaboratore di Stalin, appena divenne capo del partito (7 settembre 1953) iniziò l’opera di destalinizzazione per riformare lo spirito della popolazione fiaccato da anni di repressioni e terrori: ricordiamo che oltre ad aver sterminato circa dieci milioni tra uomini, donne e bambini, Stalin fu l’artefice di numerose «epurazioni» all’interno del partito nei confronti di presunti cospiratori. Krusciov stupì i delegati del XX Congresso del Pcus (nel febbraio del ’56) con un «discorso segreto» in cui denunciò molti dei crimini commessi da Stalin, prendendo così le distanze, dai membri più conservatori del partito. D’altro canto il nuovo leader sovietico se, in un certo senso, chiese pubblicamente scusa per gli errori e per gli orrori commessi durante l’epoca stalinista, a cui aveva in qualche modo partecipato, fu anche tra i maggiori sostenitori della costruzione del muro di Berlino (1961) e, in particolare, del controllo sulle arti e sulla libertà di espressione degli scrittori russi.
Per avere un’idea delle enormi aperture che Krusciov riuscì a imporre all’interno delle rigide abitudini del partito c’è un episodio raccontato proprio da Evtushenko. «Quando scrissi la poesia Eredi di Stalin… [1957, ndr] i giornali non si decidevano a pubblicarla… era rimasta in attesa per un anno intero… la mandai a Krusciov e la poesia fu pubblicata sulla Pravda», il quotidiano fedele al Pcus. Krusciov spalleggiava gli artisti, come se sentisse la necessità di dar voce all’anima di una Russia rimasta imbavagliata per trent’anni. Nell’«Autobiografia precoce», Evgenij Evtushenko ancora scrive (e osa farlo perché si sentiva tacitamente autorizzato): «… mi rendo conto che il crimine peggiore di Stalin non fu di aver fatto arrestare e fucilare tanta gente, ma di aver violentato moralmente l’anima dell’uomo. Certo, Stalin non predicava in teoria l’antisemitismo, ma lo faceva la pratica staliniana; così come non predicava il carrierismo, la delazione, la crudeltà e la malafede, tuttavia il suo modo di governare ne era incentivo e incremento». Parole che, in seno al partito, irrigidirono il gruppo dei fedeli staliniani, i quali prima ancora di accusare il poeta si rivolsero al leader, costringendolo a riabilitare la memoria del suo predecessore.
Nel gennaio 1963 le tensioni della Guerra fredda portarono Krusciov a Berlino est, già chiusa nella cinta muraria. Il caso volle che anche Evtushenko, in quei giorni, si trovasse nella capitale della Germania federale (ma al di là del muro!) per una conferenza, presso l’editore Gerd Bucerius, durante la quale azzardò una frase che rimbalzò subito nelle stanze moscovite del Pcus, allarmando i più tenaci conservatori di partito: «I mutamenti in corso nella società sovietica influenzano anche la nostra letteratura. Certe resistenze sono comprensibili, ma l’opposizione più dura viene da persone che si professano ancora staliniste e che mai si adatteranno ai nuovi tempi».
Rientrati entrambi a Mosca, mentre il consiglio sollecitava il premier sulle decisioni severe e categoriche da prendere per contenere l’emergenza sovversiva creata da Evtushenko, diventato ormai personaggio popolare in tutta Europa, l’artista confermò la sua partecipazione a un convegno, già organizzato da tempo, al Palazzo dello Sport. «Non potevo immaginare – disse poi – che quattordicimila persone sarebbero accorse per ascoltare una serata di poesie». Krusciov si trovò, quindi, messo con le spalle al muro dai suoi collaboratori, e soprattutto dal numero dei seguaci di Evtushenko, costretto a dover riconsiderare un problema che credeva già risolto nel dicembre del ’62 e, suo malgrado, dovette incontrare – a porte chiuse – tutti coloro «che con la propria arte avevano manifestato segni di ribellione contro le ideologie leniniste».
Le opere dei «rivoluzionari» (coloro ai quali lo stesso Krusciov anni prima aveva dato fiducia) furono rinchiuse nei sotterranei dei musei di Mosca e di Leningrado, molte delle quali firmate anche da Kandinskij. La stampa di partito diede fazioso risalto all’evento criticando e condannando all’ostracismo le manifestazioni più moderne dell’arte sovietica che affermavano il desiderio degli artisti di liberarsi dal protezionismo del partito. Il cui dogma era contenuto nello statuto dell’Unione degli scrittori sovietici, adottato nel congresso del 1934: «Il realismo socialista è il metodo fondamentale della letteratura e della critica letteraria sovietiche. Esso esige dall’artista una rappresentazione veridica, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario. Inoltre deve contribuire alla trasformazione ideologica e all’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo». Dunque, secondo questi principi, le correnti moderne delle arti e della letteratura sovietiche furono processate. La condanna si intuì chiaramente dal comunicato della Tass, tra le cui righe era scritto che le «espressioni artistiche moderne avrebbero ostacolato la realizzazione del nuovo comunismo».
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Fine seconda parte (2/3): segue
Foto in evidenza: La Compagnia dei Giovani a Mosca (archivio Nicolini)
Sono riconoscibili: avanti a sin, Isabella Guidotti (bionda) e Elsa Albani (con il colbacco); più dietro, (occhiali scuri e sciarpa bianca) Gabriella Gabrielli; alle sue spalle, Rossella Falk (sin) e Giuseppe Patroni Griffi (des); al centro in piedi, Alfredo Bianchini, Nora Ricci e Romolo Valli, (alla sua des) Pier Luigi Pizzi (occhiali scuri, scenografo), Giorgio De Lullo (in fondo), Ferruccio De Ceresa (occhiali scuri), Luigi Battaglia (il più anziano, il suggeritore); seduti a des, Toti Del Monte e Massimo De Francovich.