TERZA PARTE
Il 10 marzo 1963 il Corriere della Sera titolò in prima pagina: «In un discorso agli scrittori e agli artisti, Krusciov riabilita Stalin parzialmente». Ma prima della fine del mese di aprile molti giornali italiani – eccetto l’Unità che continuava a tacere – dovettero ammettere: «Krusciov si arrende al ritorno dello stalinismo». Il 28 marzo, ancora da via Solferino, quattro colonne, sempre dalla vetrina del quotidiano, tuonarono drammaticamente: «Evtushenko ritratta e si sottomette a Krusciov». Così l’Italia venne a sapere che il popolo russo stava perdendo ogni speranza sui bei propositi di libertà. Il poeta di Zimà, rimasto unico paladino di una crociata ormai dissolta, si dovette arrendere alle continue minacce dei rappresentanti del Pcus. Nell’articolo si scrisse di una «squallida e penosa autocritica di fronte ai catoni della cultura sovietica». Il poeta «ritratta il suo precedente giudizio definito dallo stesso “un grosso errore dovuto a un momento di sventatezza”. Secondo il resoconto della Tass, Evtushenko spiegò pubblicamente che la redazione de L’Express aveva distorto il significato di alcune delle sue più importanti dichiarazioni». Insomma, fu messo a tacere dal partito e obbligato a ritrattare ogni sua parola, ogni sua convinzione. Anche Krusciov fu costretto a fare più di un passo indietro: tutta la sua opera, tutti i suoi tentativi, tutte le aspettative che il successore di Stalin aveva creato nella società sovietica, tutte le novità della «grande svolta», tutto ciò venne ridotto a un miserevole mucchietto di cenere.
Il 30 marzo 1963, appena undici giorni prima di quel 10 aprile, durante il quale Giuseppe Patroni Griffi tese il braccio per stringere la mano al poeta ribelle, venne «Inferto il colpo finale», come titolò in apertura di prima pagina sempre il Corriere della Sera del 31 marzo: l’organo del comitato centrale dell’Unione comunista della gioventù sovietica, la Komsolmolskaia Pravda, denunciò Evtushenko di aver commesso un doppio gioco; la sua autocritica fu smascherata e classificata come il rovescio della medaglia delle dichiarazioni fornite all’Express, in cui il poeta «fa della sua ignoranza un culto e del suo marxismo un esercizio sportivo… È difficile – riporta la Komsolmolskaia Pravda – stabilire se in questa opera prevalga l’ingenuità o l’ignoranza, il narcisismo o una solenne fanfaronata, un cumulo di errori o una buffonata politica… Non vogliamo vedere nel gesto di Evtushenko una cattiva intenzione, ma egli deve capire che ogni cosa ha un suo limite, ivi compreso anche lo stato del suo infantilismo politico. Evtushenko deve capire che non si può continuare sempre a cadere per poi rialzarsi, scuotersi e far finta di niente. C’è un rischio, alla fine, che egli si procuri una contusione». Parole che non lasciano scampo a malintesi. Che sottintendono chiaramente una minaccia, un serio pericolo alla sua incolumità. Dopo quest’ultimo articolo, infatti, di lui si persero le tracce. Annullò i viaggi programmati negli Stati Uniti e in Italia e scomparve: si disse che fosse tornato in Siberia, si sparse perfino la notizia di un suo probabile suicidio.
«E invece ecco che quella sera, – lascio la parola a Patroni Griffi che il 12 maggio 1963 scrive – dopo la prima rappresentazione del Diario di Anna Frank, data dalla Compagnia dei Giovani, con un successo trionfale, alla presenza del viceministro della Cultura, che impeccabilmente non aveva smesso di applaudire durante tutto il tempo che il teatro in piedi acclamava la compagnia italiana gridando “grazie! grazie!”, quella stessa sera, alla Casa degli attori, in via Gorkij, dove eravamo stati invitati, eccolo là Evtushenko, nella prima sala del ristorante, a un tavolo a bere con un amico e due ragazze. Di colpo ci siamo voltati tutti a guardarlo – ci siamo accorti che era per noi una fisionomia notissima – e con le teste rivoltate abbiamo fatto il nostro ingresso nella seconda sala dove ci attendeva il banchetto offerto dagli attori moscoviti. Si festeggiava il successo di una commedia scritta nel nome di quella stessa Anna Frank che è costata a lui, forse, la possibilità di esprimersi.
«La prima sensazione che si prova a stare in Russia è quella di non capire niente. Mille contraddizioni, ad ogni momento, ti gelano l’entusiasmo, o all’improvviso sciolgono con vampate d’ammirazione il ghiaccio che ti si è rappreso sul cuore. Cambi opinione di continuo, ti nasce il sospetto che per capire questo paese e questa gente, oltre che essere sincero con te stesso, occorre forse fare i conti con i tuoi vizi, le tue involontarie incrostazioni borghesi, le tue inutili esigenze. … Così quella sera io non capivo perché c’era tanto entusiasmo intorno a noi e perché tanto vuoto intorno a quel tavolo d’angolo nella sala accanto. Più tardi dovevo capire che in Russia esiste un pregiudizio per cui all’occidentale, figlio di una civiltà capitalista e in decadenza, è permesso fare quello che a un vero russo e a un vero comunista, figlio di una nuova civiltà, non può essere permesso…».
Giuseppe Patroni Griffi, intellettuale partenopeo, cresciuto nella Napoli devastata dalle bombe degli alleati, ribelle ad ogni forma di inquadramento politico, antifascista per educazione, uomo a cui la guerra ha insegnato la forza irresistibile delle idee, del colloquio sempre aperto, della rinuncia alla violenza, pronto a gridare l’insofferenza dell’essere condizionati perché il condizionamento è la prima forma di mancanza di libertà, mente incapace di concepire, dopo aver vissuto in prima persona la rabbia e il terrore di quelle quattro giornate in cui il popolo napoletano scacciò l’invasore, che la ribellione di un altro popolo venisse soffocata, che la luce del pensiero ribelle venisse oscurata dalle minacce, mettendosi egli stesso – lui che era lì – nelle vesti degli intellettuali del loco, si chiese: «Perché nessun partito comunista europeo non segue le nostre sventure?» L’Unità arrivava a Mosca con le dichiarazioni di voto di uomini come Visconti, come Pasolini, come Luigi Nono; era certamente anche questa una risposta, una presa di posizione indiretta del partito italiano, ma perché – si chiese ancora Patroni Griffi, immedesimandosi nell’angoscia del poeta che era lì seduto a pochi passi – non una riprovazione più aperta, un aiuto maggiore, perché non osare un litigio ai ferri corti? Il partito comunista italiano è il più forte nel mondo, dopo quello sovietico, perché resta muto, insensibile, inerme? Lo stesso cinismo togliattiano che Nanni Moretti riscontra oggi nel suo ultimo film, a proposito dell’invasione in Ungheria del ’56, Patroni Griffi l’aveva visto e sentito più forte e più vivo il 10 aprile 1963, quando dall’Italia nessun comunista mosse un dito per sostenere la libertà d’espressione degli intellettuali e degli artisti di una Russia ancora soggiogata dalla memoria di Stalin dittatore.
«Io per questo ero furibondo – prosegue sul Messaggero – così mi alzai e presi di mira una delle nostre guide, la più intransigente. Gli chiesi per favore di presentarmi ad Evtushenko. L’altro si mostrò sorpreso: dov’era Evtushenko? Glielo indicai. “Non è il caso – replicò – è ammalato in questo periodo”. “Lo so che è ammalato, vorrei perciò fargli gli auguri”. “Volevo dire, non sta bene, ha bevuto – si corresse la guida – è triste, non lo vede? Non mi sembra il caso”. … Poco dopo la guida, a cui pareva già una cosa grossa aver dovuto ammettere che Evtushenko beveva, si alzò e inavvertitamente fece calare un tendaggio che divideva le nostre due sale; ma la Guarnieri, in palcoscenico la nostra Anna Frank, che sedeva di fronte a me, ostentatamente andò a riaprire la cortina. La guerra fredda stava a questo punto, quando un giovane attore mai visto prima, dall’aria sventata e felice, irruppe nella sala e dichiarandosi entusiasta della Compagnia italiana, ammiratore di Eduardo, e pazzo per i film di Visconti, mandando bruttamente a quel paese la guida che cercava di trattenerlo, venne ad invitare per un ballo una delle nostre attrici. Il ghiaccio era rotto. Il pranzo si interruppe, fu tutto un ballare, un alzarsi e sedersi, invadendo l’altra sala. Il povero Evtushenko non poteva capire che cos’era tutto questo gran ballare intorno a lui. Vedevo che l’amico, chinatosi al suo orecchio, gli spiegava, evidentemente, chi fossero gli stranieri. E il suo viso era lontano, in un paese della memoria, dove i suoni giungono attutiti e le cose intorno non hanno senso. … Certo non si sentiva colpevole per aver scritto che Stalin aveva profondamente contraffatto il pensiero di Lenin: “Se il pensiero e l’opera di Lenin possono essere riassunti nella massima: il comunismo al servizio degli uomini, per Stalin sostanzialmente erano gli uomini al servizio del comunismo. E la teoria staliniana, che gli uomini non fossero altro che insignificanti rotelline nel grande meccanismo del comunismo, dava, messa in pratica, risultati terrificanti”. Né doveva sentirsi colpevole d’aver scritto ancora: “Posso avere il diritto di parlare male delle cose brutte all’estero, solo perché ho avuto il coraggio di parlare anche di quanto c’è di marcio nel mio paese. Se no, che rispetto potrei sentire per me stesso?”.
«Il pranzo alla Casa degli attori era irrimediabilmente finito e dovevamo andar via. Così ripassammo per la prima sala, io in coda a tutti. E non ne potetti fare a meno: mi avvicinai e inaspettatamente gli stesi la mano. Evtushenko si alzò a metà, con un braccio si sosteneva al piano del tavolo, con l’altro strinse la mia e, in un italiano che sapeva di spagnolo, mi disse: “Buonasera, amico”».
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Terza e ultima parte (3/3): fine
le prime due puntate sono uscite il 7 e il 9 maggio
Foto in evidenza: Evgenij Evtushenko negli anni Sessanta