Candidi, i lenzuoli tradiscono il lento orchestrarsi delle ombre; si muovono le sagome in un sincrono di frenesia e d’attesa: s’attende a Messina l’arrivo di Don Pedro D’Aragona.
Alterchi, battibecchi, spiragli farseschi; dirottando il confine fra gioco e languore che s’apre “Molto rumore per nulla” di William Shakespeare, in scena al Silvano Toti Globe Theatre di Roma per la regia di Loredana Scaramella in scena fino al 25 agosto.
Preceduti dal duello tagliente delle loro lingue, si presentano i personaggi: se il ritorno del principe è snodo per il disvelamento dei caratteri, causa profonda ne è quel turbamento d’amore che sconquassa ora Claudio, ora Ero, per poi, rinnegato, tramutar Benedetto nell’ “incallito tiranno del gentil sesso”.
Laddove il travestimento sembra essere l’unico appiglio per l’esternazione d’un sentimento celato, esso non fa che essere metamorfosi delle stesse coscienze fino ad allora esenti da un turbamento che le ribalta stravolgendone l’agire, il pensare: il negato s’afferma, il certo si sbriciola, la presupposizione si nutre del corpo d’una gretta menzogna sgretolando i confini fra scherzo e complotto.
Ed ecco che sul fondale d’un amore presunto s’innesta il telaio d’un inganno, lo stesso che funge invece da elemento calamitante per due anime ciniche e scorbutiche: come il mellifluo vociferare di Borracio si pone come elemento di scissione tra due amanti, gli altri trovano nell’insinuazione il motore salvifico di un’unione altrimenti inattuabile.
Lo strazio rende incandescenti le anime orgogliose, turbamento è per loro l’incandescenza di un desiderio che attecchisce alla calce del cinismo; ma un’altra vicenda prende corpo nel sostrato della prima.
Balzi felpati, corde, capriole; una polvere bianca erutta dal proscenio mentre l’orecchio si apre al rumoreggiare di scope, di corde e pennacchi.
Tettetteterre, terettettere, tettettere, terettettè; quattro sagome si fanno organi per una goliardica pantomima che deforma l’elemento vocalico, lo alterna e lo orchestra al gesto.
Si odono ballate, echi di pizzica e taranta sanciscono un’interruzione solo apparente giacché lo spettacolo prosegue fra scuotimenti di piedi ed enormi clessidre.
Al riprendere dell’azione, il brutale stravolgimento delle nozze: tutto appare rovesciato eppure “la calunnia sarà trasformata in rimorso”.
Vigliacchi! Scimmie! Pagliacci! Smidollati!- saranno Corniolo e Sorba a smascherare quei “furtiofanti mentiatori”, a sancire sull’orlo del gioco linguistico un ormai inatteso lieto fine.
Così come l’intervallo, anche il finale vede la ripresa del canto popolare questa volta sardo, ad opera del Trio William Kemp (Luca Mereu, Michele Di Paolo, Antonio Pappadà) che armonizzandosi con le atmosfere che evoca porta gli attori a confluire nel pubblico nella “manìa tarantolata” di una danza.
Un calore capillare e contagioso unisce gli attori Fausto Cabra: Claudio e Mimosa Campironi: Ero, ingenue vittime dei perfidi “rumori”; Mauro Santopietro: Benedetto e Barbara Moselli: Beatrice, portatori di una spigliata vena autoironica; e ancora Lara Balbo: Margherita, Cristiano Caccamo: Frate Francesco / Sorba, , Federico Ceci: Don Pedro, , Alessandro Federico: Borracio, Roberto Mantovani: Antonio/giudice, Maurizio Marchetti: Lonato, Matteo Milani: Don Juan, , Ivan Olivieri: Corrado, Loredana Piedimonte: Orsola, Carlo Ragone nel suo duplice ruolo di cantante e capo della ronda notturna, autentico gigante del palcoscenico, Federico Tolardo e Jacopo Crovella nel ruolo delle due guardie,: catapultati nel loro ruolo fino a fondersi con esso sono riusciti a tramutare il palco in organismo pulsante reso ancor più raffinato dai costumi di Susanna Proietti e dalle splendide luci di Umile Vainieri.