Rai Fiction presenta una «Napoli milionaria!» senza guerra e senza fame
Che Eduardo non potesse essere visivamente presente nella sua Napoli milionaria!, targata Rai Fiction e firmata da Luca Miniero, lo si sapeva – un’assenza coatta, la sua, assai prevedibile che elude ormai ogni tentativo di confronto attoriale – ma che fosse estromesso dalla partita, e addirittura dimenticato negli spogliatoi, senza nemmeno l’accortezza di conservagli un posto d’onore in panchina, questo ha trovato impreparati (e anche indisposti) molti telespettatori. Talmente eccessive le modifiche al testo originale che, sì e no, ne è rimasto il soggetto. Un soggetto, in verità, poco consistente.
La nuova sceneggiatura, scritta da Filippo Gili e Massimiliano Gaudioso, è stata corredata di tutto il superfluo possibile, a discapito del necessario. Vero è che Wilde a suo tempo proclamò il contrario («Datemi il superfluo, farò a meno del necessario», diceva con fiera ironia), ma qui il dandismo non c’entra niente; la commedia è un piccolo ed immenso quadro storico da cui è impossibile evadere se non a danno del significato voluto dall’autore: e non si può e non si deve modificare la storia. Siamo nel 1942 (primo atto), Napoli è sotto l’oppressione della Wehrmacht. La tensione – la sera precedente ai fatti molti di loro l’hanno trascorsa al ricovero – è insostenibile, la gente ha paura, eppure Miniero preferisce trasporre molte scene all’esterno dimenticandosi dei bombardamenti: i vicoli di Napoli – si vede nel film – sono pieni di vita, movimentati da un fermento che non contiene alcuna angoscia, quella della guerra che invece c’era, eccome! «Quanno fernesce sta guerra?», «… ce distruggeno a nnuie», «Dice ca menano ‘o veleno», sono tutte battute che dichiarano il terrore di una realtà che nel film, però, non c’è, perché la guerra, in questa sceneggiatura evidentemente sta altrove. Rimosse perfino le strisce di carta gommata sui vetri che davano il senso di clausura, oltre che proteggere le persone dall’esplosione delle schegge in caso di deflagrazione. Mostrare due soldati tedeschi aggirarsi tra la folla, come poi accadde per le truppe americane, è un falso storico abbastanza eclatante: i loro mitra mettevano paura! Eduardo, sapendo far arrivare vive le sensazioni del dramma che si consumavano anche in quinta, non ha avuto bisogno di militari in scena, e giustamente ha concentrato incontri e dialoghi all’interno di un basso, lontano da temibili ascoltatori.
Le scelte innovative di questa edizione Rai Fiction evidenziano la frenesia del contrabbando piuttosto che mettere a fuoco l’angoscia e la miseria. Nell’originale, il mercato nero c’è, ed è certamente importante, ma non è il dramma, anzi, ne è una conseguenza; Miniero, invece, ne ha fatto un’esibizione. A tal proposito, l’errore più grossolano è l’assenza del sentimento di fame (più della fame stessa) che allora regnava a Napoli, un sentimento (ed Eduardo lo sapeva bene) che non viene manifestato dal simpatico scambio, tra padre e figlio, del piatto di maccheroni – che è una trovata umoristica per alleggerire il peso del dramma – ma è concentrato sulla visita del ragioniere, personaggio fondamentale, che, per comprare il cibo per sé e la sua famiglia, è costretto, lui borghese, a entrare nel basso di donna Amalia.
La formula teatrale è semplice: se il ragioniere si reca, lui, dalla venditrice c’è la disperazione della fame, se – come si è visto – è donna Amalia che bussa alla porta del ragioniere, non è più fame ma soltanto avidità di chi esercita il mercato nero. Se il ragioniere non ha reale necessità, se non è messo alle strette dalla sua indigenza a scendere a un compromesso che mai avrebbe preso in considerazione («Tipo di impiegato benestante» scrive l’autore in didascalia), significa che non ha fame, e che quindi imbarazzo e vergogna, nell’esibire la propria povertà a gente del popolo, non lo toccano. E infatti, tra le mura di casa sua, il ragioniere Spasiano è affatto imbarazzato. Sembra addirittura più a disagio donna Amalia. Insomma Miniero & C. hanno stravolto il significato della fatica letteraria di Eduardo che con quella scena ha voluto sottolineare come, a Napoli, la borghesia è sempre stata una classe sociale debole, priva di iniziative e incapace di trovare risorse.
Il basso di Amalia Iovine, laddove don Gennaro si è costruito il suo ironico siparietto quotidiano, è il luogo d’incontro di un’umanità popolare, e non soltanto un magazzino per nascondere la merce per il traffico illecito di Settebellizze e di donna Amalia. Ogni mattina in quella stanza (che nella versione Rai si è moltiplicata per tre) si ritrovano, come in un rito, molti personaggi a prendere il caffè. Certamente qualcuno ricorderà la grande caffettiera napoletana che troneggiava al centro del tavolo nella versione di Eduardo; ebbene, qui, del caffè di donna Amalia, se ne sono perse le tracce; se n’è parlato, è vero, ma poi lei stessa ha preferito servirsi dalla concorrenza, lasciando ancora una volta incustodito il basso. Probabilmente si è sottovalutato il profumo del caffè per promuovere quello del pecorino che annuncia l’arrivo di un brigadiere sardo esperto degli acri odori della sua terra.
La protagonista ideata da Miniero prende spunto dalla battuta iniziale di Gennaro, il quale sentendola strillare nel vicolo, dice: «Sta parlanno? S’ ‘a sta mangianno», e procede in questa direzione battagliera e litigiosa fino a calpestare, per mero dispetto, un lenzuolo che la rivale ha messo ad asciugare in un anfratto. La protagonista eduardiana, per quanto la si conosca, non si abbasserebbe mai a simili mezzucci infantili per dimostrare la sua superiorità. Amalia si è guadagnato pubblicamente l’appellativo di «donna»: ciò equivale a una ipotetica stelletta militare che lei sfoggia con orgoglio e fermezza. E se il suo regno (‘o vico) è condiviso con altre donne, il suo seggio è il basso: è lì che lei gode appieno, senza rivali, del suo potere matriarcale. Ecco perché averla portata troppe volte fuori dalla tana è un proposito arbitrario che toglie forza ed energia al personaggio.
Anche Gennaro Iovine è stato declassato da umorista della tragedia umana a semplice disoccupato quasi incapace di proferir parola. Quel che dice, poverino, corre a spifferarlo lontano da casa, come se avesse paura di buscarle dalla moglie sempre troppo spumeggiante e severa. Come lui, anche gli altri personaggi si disperdono nel vicolo senza lasciare alcun colore, nessuna tinta forte in costoro, ma soltanto sbiadite caratterizzazioni. Il personaggio di Peppe ‘o cricco c’è, ma s’è dissolto in quattro battute.
Quando la vicenda, poi, si sposta al periodo immediatamente successivo allo sbarco alleato (secondo atto), invece della più importante novità che riguarda il riscatto sociale di donna Amalia conquistato con scellerata perfidia ai danni del ragioniere – particolare che darà forza quando costui le porterà la medicina per la figlia malata – vediamo lei, con il suo amante Settebellizze, romanticamente distratti su una elegante terrazza di un ristorante sul mare: una scena aggiunta tanto stravagante quanto immotivata. Oltretutto per riprendere in primo piano gli avventori sullo sfondo del Vesuvio s’è pensato di farli accomodare al tavolo con le spalle rivolte al mare: un’assurdità dopo l’altra!
E che dire del finale incongruo e bugiardo? Gennaro dice alla moglie di aver saputo che la figlia Rosaria è incinta: «Ieri sera, vicino al letto della sorella, mi confessò ogni cosa», rivela il reduce. Ma non è vero: la telecamera in quel momento era nella stanza della piccola e ha filmato l’attimo in cui Rosaria trova il coraggio di aprirsi al padre: «Papà, t’aggi’ ‘a dicere na cosa». Poi, però, il pianto di Rituccia ammalata interrompe il dialogo: la ragazza, sollecitata dal padre, corre a chiamare la madre e non dice più nulla al genitore.
Perfino il canto da antica corifea che è il «Ch’è succieso… ch’è succieso» di donna Amalia finalmente «vinta, affranta, piangente, come risvegliata da un sogno di incubo», cosciente ora di una tragedia che non aveva mai vista prima né immaginata, quel canto disperato, invocato dal perdono del marito, è finito sulla bocca di tutti tranne che tra le lacrime di lei.
Volutamente fin qui non ho nominato gli attori perché non hanno alcuna responsabilità del fallimento di questo tentativo di trasposizione filmica; che è sbagliata, falsata, soprattutto lontana dalle intenzioni dell’autore. Quando il senso di un testo segue un percorso, e la regia (et sceneggiatura) rema controcorrente, gli interpreti diventano vittime di una confusione che certamente non li aiuta a trovare un equilibrio. E anche questo si è visto. Massimiliano Gallo soltanto nel monologo finale riesce a far fiorire la propria recitazione; gli altri non hanno la possibilità purtroppo. A loro va la mia comprensione. Poteva essere una bella vetrina per tutto il cast, invece s’è rivelata un’occasione persa.
____________________
Napoli milionaria!, di Eduardo De Filippo, con Massimiliano Gallo (Gennaro Iovine), Vanessa Scalera (Amalia), Carolina Rapillo (Maria Rosaria), Vincenzo Nemolato (Amedeo), Andrea Solimena (Rituccia), Michele Venitucci (Errico «Settebellizze»), Gennaro Di Biase (Peppe ‘o cricco), Tony Laudadio (Rag.re Riccardo Spasiano), Nunzia Schiano (Adelaide Schiano), Marcello Romolo (Federico «‘O miezo prevete»), Jacopo Cullin (Brig.re Ciappa). Sceneggiatura, Filippo Gili e Massimiliano Gaudioso. Regia di Luca Miniero. Rai Uno, 18 dicembre