Torna all’Off/Off il testo di Patroni Griffi del 1967 che divenne un film nel 1969
All’Off/Off Theatre, dal 19 al 28 gennaio, torna in palcoscenico, dopo 21 anni dall’ultimo allestimento, Metti, una sera a cena: il testo che più di tutti ha reso famoso il suo autore, Giuseppe Patroni Griffi, anche grazie a una celebre trascrizione cinematografica. Protagonista dell’odierna impresa è Kaspar Capparoni che ne firma la regia, oltre a ricoprire (per la seconda volta) il ruolo di Max che fu, nella prima edizione, di Romolo Valli. Con lui ci saranno Laura Lattuada (Nina), Clara Galante (Giovanna), Carlo Caprioli (Michele) ed Edoardo Purgatori (Ric). Scene, Alessandro Chiti.
Il seme di Metti, una sera a cena germoglia, nella mente di Giuseppe Patroni Griffi, dopo una serie di eventi amichevoli e teatrali, che vide protagonista l’intera schiera degli amici di Peppino: Romolo Valli, Giorgio De Lullo, ma anche Nora Ricci e soprattutto Luchino Visconti. Il tavolo, posto al centro della scena, è il fertile terreno di una vicenda che coinvolge personaggi che lì hanno piantato le loro radici e non riescono più ad allontanarsi, finanche nelle situazioni più difficili. La tavola – non è un caso che nelle didascalie sia sempre nominata al femminile – diventa donna quando è apparecchiata (cioè, ingioiellata), pronta per essere usata per l’atto «libidinoso» del pasto, e rappresenta l’Eden – dove tutto è permesso – delle complicità tacite e solidali. Intorno al desco sono coinvolte quattro (alla fine saranno cinque) persone che evocano un incontro orgiastico all’insegna della parola e dell’amicizia, nel quale tutti sono invitati a partecipare al convivio. L’unica imprescindibile regola, infatti, è che nessuno abbandoni la tavola; chi lo fa è un traditore.
Se amore fosse fedeltà, non esisterebbe amore, in quanto amore non la contiene, dice il personaggio di Michele. Ma a tavola è diverso: chiunque abbia conosciuto Peppino ricorderà che, lasciare all’improvviso la sua tavola, era per lui – quello sì! – un autentico tradimento. La tavola – quella del sodalizio – nasce con Visconti nell’immediato dopoguerra, quando il grande regista milanese era l’anfitrione assoluto di una ciurma di giovani, attori e intellettuali, abbastanza squattrinati, che bazzicava quasi sempre intorno a piazza del Popolo. Quei ragazzi, tutti amanti del teatro, spesso la sera riuscivano a cenare soltanto grazie alla generosità del conte.
I vostri posti saranno apparecchiati ogni sera alla mia tavola, avverte ancora Michele al finale, invitando Ric, e rubando la frase proprio a Visconti che la ereditò da René Clement; il quale, quando a Roma girò Delitto in pieno sole (1959, il film uscì nel ‘60) affittò una bella villa sull’Appia Antica dove organizzava cene con amici e attori, e ogni sera alla sua tavola c’era un posto fisso riservato ad Alain Delon. Tre anni dopo, quel posto fu apparecchiato, sempre per il bell’Alain, alla tavola di Luchino, al baglio che Visconti aveva affittato a Palermo durante le riprese (1962) del Gattopardo.
Ma perché, parlando di Metti, una sera a cena, si sente il bisogno di far sedere a capotavola Luchino Visconti? Semplice ed evidente: i primi appunti della nuova commedia, scritti a mano su dei fogli volanti, portano in esergo una dicitura esplicativa: Colombaia, Ischia, 19 maggio 1966. Lì sono descritti i personaggi, alcune situazioni ed è anche annotata qualche battuta: le più riuscite, quelle sopravvissute al testo definitivo, sono nate alla tavola estiva di Visconti. Ancora da quegli appunti si viene a sapere che il secondo atto comincia «su una terrazza sul mare», come se fosse la Colombaia, luogo dove i nostri sodali riuscirono a sostituire il concetto borghese di unione familiare con quello di coesione di un gruppo. Un nucleo sciolto da ogni rapporto di parentela, ma formatosi liberamente, i cui elementi convivono, sostituendo ai vecchi codici della tradizione, regole proprie, meno rigide, e più consone agli umori esistenziali. Regole che rifiutano ogni moralismo, ma che più facilmente si adattano alla malinconia dei sentimenti che sappiamo essere altalenanti.
Non è una tavola, è una zattera, sentenzia ancora Michele (alias Patroni Griffi/Visconti). E il belvedere della Colombaia ospitò, oltre a Patroni Griffi, Giorgio De Lullo, Nora Ricci, Franco Rosi, Michelangelo Antonioni, Antonella Scialoja, Franco Zeffirelli e tanti altri: ossia, l’intera «famiglia» viscontiana tutta aggrappata a quella zattera che sorregge e conforta un manipolo di naufraghi coesi dalla comune idea di salvezza: l’amicizia che, per i nostri, fu tutta concentrata e divisa tra letteratura, teatro e cinema.
Il solito triangolo… moglie, marito amante, rivela Michele presentando all’amico Max la sua idea di commedia. Ebbene, proprio De Lullo e Valli, nel 1965, cominciavano le prove de Il giuoco delle parti di Pirandello, opera che i Giovani portarono in tournée, alternandola con La Calandria fino al debutto di Metti, una sera a cena (15 febbraio 1967 al Teatro Eliseo). Michele, Nina e Max, creature artistiche di Patroni Griffi, sono una lettura in chiave moderna e disinibita del triangolo pirandelliano formato da Leone Gala, sua moglie Silia e da Guido Venanzi.
Perché quel tizio dice parole assolute, incantate, con le quali non si resiste alla tentazione di scommettere, è la previsione di Michele, accettando l’allontanamento di sua moglie Nina. I personaggi che formano il triangolo borghese, tuttavia, sono soltanto il punto di partenza di un cambiamento sociale che si basa sulla crisi identitaria della famiglia, una formula d’unione di cui, nella commedia, sopravvive soltanto la tavola imbandita, simbolo del rito della cena come occasione d’incontro stabile e possibilità di dialogo. Riletta quasi sessant’anni dopo, si potrebbe dire che quella zattera (rappresentata dalla tavola) cerca di portare in salvo un ristretto gruppo elitario, perché distaccatosi dal concetto borghese del parentado, che, di fronte al tentativo di uno sfaldamento, resiste grazie al reciproco interesse nei confronti della parola che è sinonimo di amicizia. Soltanto così Nina, a scommessa persa, trova la salvezza ed è riammessa alla sua tavola.
Siamo un gruppo condannato ad amarci, credevo te ne fossi accorto, è il grido di Max che mette Ric alle corde. In casa di Leone Gala, il risentimento provocato dagli eventi si concentra sulle conseguenze logiche del tradimento di Silia e delle responsabilità che dovrà assumersi Guido, l’amante. In Metti, una sera a cena, invece, non è l’amante a essere messo sul banco degli imputati, ma l’effetto causato dal tradimento in colei che lo ha commesso: è la stessa Nina, paradossalmente, che si sente «tradita» da se stessa, dalla decisione di aver abbandonato la sua famiglia che ora ne soffre il volontario allontanamento. Il vecchio dramma pirandelliano è quindi ripassato al setaccio esistenzialista di Sartre (A porte chiuse). La situazione di isolamento dei quattro superstiti viene minacciata dall’avvento di un imprevisto (Ric) e allora si cerca di rimediare pur di non cedere a quell’inferno che sono gli altri. Così la zattera resiste alla tempesta, grazie all’intervento risolutivo di Max che, come Guido Venanzi, si batterà – a suo modo – al posto di Michele, il marito.
In Prima del silenzio (commedia di Patroni Griffi del 1979, scritta per Romolo Valli) la visione della zattera ritorna prepotente per portare ancora una volta in salvo la parola. Nella prima scena, infatti, viene descritta da Lui, alter ego dell’autore, che ricorda il dipinto di Géricault (La zattera della medusa) nel quale alcuni «naufraghi disperati si aggrappano all’ultima idea di salvezza», mentre «il più anziano appare rassegnato, già immerso nel riflesso della fine». Mettendo a confronto alcuni passi delle due opere, i naufraghi disperati sono loro: Michele, Max, Nina, Giovanna e anche Ric, tutti impreparati, come oggi molti di noi, al drammatico «naufragio delle parole». Dodici anni prima che quella parola trovi «la morte senza resurrezione», Michele già apparecchiava la sua tavola aggiungendo un posto fisso in attesa del Convitato di pietra, il quale, anche lui, si convertirà alla necessità di un dialogo, ossia della parola.
La commedia, frutto di una esperienza comune, fu confezionata come un perfetto abito su misura per il gruppo degli amici attori che già avevano portato in scena con successo sia D’amore si muore (1958) che Anima nera (1960): De Lullo (Michele), Valli (Max), Falk (Nina), Albani (Giovanna) e Orsini (Ric); tuttavia, Giorgio De Lullo scelse di concentrarsi soltanto sulla regia, cedendo i panni del suo personaggio a Carlo Giuffré. Ed è curioso che da quei primi appunti la vera protagonista femminile sembra essere Giovanna, definita: «l’amica della moglie, meno bella e innamorata segreta dello scrittore». I successivi passi della Compagnia dei Giovani non furono coincidenze, ma conseguenza della forte coesione di quel gruppo: immediatamente dopo l’allestimento di Metti, una sera a cena, infatti, Visconti portò al Maggio Fiorentino del 1967, l’Egmont di Goethe con Giorgio, Romolo, Elsa, Nora e altri; subito dopo Rossella fu protagonista proprio con L’amica delle mogli di Pirandello che chiuse il cerchio di quel memorabile e fortunato triennio.
Metti, una sera a cena divenne, sin dal debutto, uno dei titoli più efficaci del teatro italiano, entrato nell’idioma del nostro linguaggio quotidiano. Conquistò la popolarità sovrana a conclusione di un meticoloso dibattito assai appassionato tra i protagonisti. L’autore che lo aveva ideato venne invitato dai suoi sodali e a riflettere bene sull’eventuale presa che una simile proposta avrebbe avuto sul pubblico. Tutti sospettosi che non potesse far da richiamo (nel 1966 era considerata una frase incomprensibile) fu messo ai voti insieme a una lunga serie di opzioni. Oltre ai soliti amici, furono ascoltati anche i direttori dei più importanti teatri dove la commedia sarebbe stata ospitata. Al termine del sondaggio, l’autore fu a un passo dal cedere al più quotato Mentre eravamo a cena (34 voti) che superava di sole due lunghezze Un caso risolto (32 voti) che precedeva Cenando s’impara (30), La polvere che respiriamo (29), Grandi amici (28), e con 27 preferenze Metti una sera a cena (ancora senza virgola). La testardaggine di Peppino nel credere alla sua invenzione, però, gli diede ragione non solo tra il pubblico teatrale ma in pochi mesi quel metti che – sospeso da una virgola – divenne lo slogan degli anni immediatamente successivi. E quando il copione fu trasformato in sceneggiatura, il film trovò già la strada spianata per una sonante campagna pubblicitaria che lanciò uno dei più importanti successi cinematografici di quegli anni. Era il 1969.
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Edizione teatrale del 1967 – Debutto al Teatro Eliseo (Roma), 15 febbraio 1967. Regia, Giorgio De Lullo. Scene, Pier Luigi Pizzi. Interpreti: Romolo Valli (Max), Rossella Falk (Nina), Elsa Albani (Giovanna), Carlo Giuffrè (Michele), Umberto Orsini (Ric). Compagnia De Lullo, Falk, Valli, Albani.
Nella stagione 1967/68 Orsini fu sostituito da Adalberto Maria Merli.
Edizione cinematografica del 1969 – Un film di Giuseppe Patroni Griffi. Sceneggiatura, Dario Argento, Carlo Carunchio, G. Patroni Griffi. Musiche, Ennio Moricone. Interpreti: Jean-Louis Trintignant (Michele), Tony Musante (Max), Florinda Bolkan (Nina), Annie Girardot (Giovanna), Lino Capolicchio (Ric). Produzione, Euro International Film di Giovanni Bertolucci e Marina Cicogna.
Edizione teatrale del 1983 – Prima nazionale, 22 novembre 1983 al Teatro Nuovo di Milano. Regia, Aldo Terlizzi (che firma anche le scene). Interpreti: Florinda Bolkan (Nina), Michele Placido (Michele), Remo Girone (Max), Fiorenza Marchegiani (Giovanna), Fabrizio Bentivoglio (Ric). Compagnia italiana di Prosa diretta da Giuseppe Patroni Griffi.
Edizione teatrale del 2003 – Prima nazionale, 29 gennaio 2003, al Teatro Diego Fabbri di Forlì. Regia, Giuseppe Patroni Griffi. Scene, Aldo Terlizzi. Interpreti: Elena Sofia Ricci (Nina), Stefano Santospago (Michele), Kaspar Capparoni (Max), Monica Scattini (Giovanna), Alessandro Averone (Ric). Compagnia del Teatro Eliseo diretta da Giuseppe Patroni Griffi.
Foto di copertina: Romolo Valli, Rossella Falk e (disteso) Umberto Orsini nella prima edizione diretta Giorgio De Lullo Foto © Bosio. Archivio Nicolini