Anche la morte si contraddice
Misurato tra poesia e distopia grottesca il testo di Josè Saramago. Splendida la regia, visionaria, espressionista, surreale. Intensi, gestuali, ipercinetici, stralunati gli interpreti. Spettacoli come questo – Le intermittenze della morte meriterebbero di stare in cartellone più giorni. Il testo è armonicamente spartito in due tempi.
Nella prima parte una sospensione della morte colpisce una nazione (e non le confinanti), dando luogo ad una catena di assurdità e disagi, che hanno lo scopo di evidenziare l’assurdità della pulsione all’immortalità. Nella seconda parte, tramite una missiva anonima fatta leggere in diretta TV, la morte viene ripristinata, con la variante che ora ciascuno se la vedrà preannunciata sette giorni prima, tramite una missiva in busta viola (il colore quaresimale della penitenza). In entrambi i casi, le circostanze danno la stura ad effetti comici. Di paura nella seconda parte, di scompiglio dell’ordine sociale nella prima parte. Come potranno infatti funzionare i messaggi della Chiesa, fondati sulla sua autorità sull’aldilà, ma come potranno funzionare anche, più prosaicamente, le assicurazioni. La Chiesa propone l’istituto della morte rinviata. Le banche propongono una morte formale a 80 anni, termine entro cui si può riscuotere il premio assicurativo. Ma che fare poi dell’incremento dei vecchi da accudire nelle case di cura, e dei malati che intasano gli ospedali senza morire ? Risolverà la Mafia, portando a morire oltre frontiera, dove ancora è possibile.
Il testo ha tuttavia poi una impennata romantica. Se la logica rende assurdo il rapporto degli uomini con la morte, è pur vero che il loro fragile aggrapparsi alla vita è musica, è amore. Così – e forse è un po’ un cedimento – accade che la missiva mortuaria non riesca a raggiungere un timido ed intenso violoncellista. Allora la morte si dà il compito di consegnargliela. Salvo poi esitare essa stessa, e procrastinare, fino ad accorgersi che, incarnatasi in una donna in abito bianco, essa stessa sta cedendo alla vita, renitendo a riassumere le fattezze dello scheletro. Anzi cede, timidamente, all’amore per il musicista, all’amore per la vita. Siamo agli antipodi del bergmaniano Settimo sigillo. La morte cessa dunque ? O è un aspetto della vita (simboleggiata dal musicista), così intrinseca ad essa da poter metaforizzarne il rapporto come amore ? Saramago non specifica. Sta sulla metafora.
Bianco a contraddire il nero che domina quasi tutto lo spettacolo, anche se contraddetto dalla fosforescenza degli oggetti scenici, e dei volti, lune bianche sul nero di frac e bombetta, con lunarità clownesca. Gli oggetti scenici ? Semplici tre scale bianche, costruttiviste e polifunzionali, che arredano lo spazio in più posture, diventando portali, piramidi, sedie.
La scena si apre con una presenza magrittiana (Alessandro Moser), immobile in bombetta. Davanti al viso, a cancellarlo, una mela verde. Il desiderio, senza volto, enigmatico, contrapposto all’amore tutto anima del finale ?
Forse. O forse una allusione all’Eden. Ironica, imperturbabile. Appesi qua e là, abiti scuri … I morti ? Poi la scena si scatena, in una frenesia di corpi scagliati in gestualità e vocalità frenetiche. Prima recitano su musichetta accelerata, a ritmo sincopato e ripetutamente, come marionette, ‘Ave Maria’. Poi, una sulla scala e l’altra a fianco, in stop motion, stralunano il volto a maschera espressionista urlante, mentre sull’altra scala lui muove con tremore una corona, emettendo una isterica lallazione … aah ahh ah lalalà lalalà … Si parla dell’agonia irrisolta della regina. La morte sospesa ? Serena Borrelli – forse la più gestuale ed espressionista delle due – si fa frenetici segni della croce, convulsi, e ripete veloce .. già già già già già già già già …
Poi il ritmo un po’ si placa.
Ma il succedersi degli episodi, discussi, narrati (i pompieri, le assicurazioni, gli ospedali, etc) è sempre commentato e montato gestualmente, con posture di attonito immobile stupore, maschere, momenti di lallazione e squittio, capriole a terra, gruppi composti e scomposti, in parallelo, tra azione dialogo e commento.
Un marionettismo allucinato che mi ricorda La classe morta (1975) di Kantor. Poi il tutto si placa in tenebrosa immobilità.
Sullo sfondo, in penombra, braccio alzato col falcetto, troneggia su una monumentale gonna nera, l’alter ego della morte, La Falce. Un po’, per il gigantismo statuario e la funzione di monito, ricorda il commendatore, nel Don Giovanni di Mozart. Redarguisce il proprio lato debole.
Lei è falce, strumento. L’altra, bianca, incarnata, è il lato ‘anima’ della morte.
A questo punto la scena – in controluce allo sfondo di mesta saggezza tonale agito da Serena Borelli (la falce) – è tutta del duo amoroso, Martina Grandin e Alessandro Moser. E sono bravi. Bravi nel reggere il cambio di registro, e nell’immergersi in un tutto vibrare di sensibilità, timidezza, tensione sentimentale.
Così questa sinfonia per morte comiche e delirio, questo quartetto da camera in bianco e nero, tramonta in un tutto bianco, in un forse troppo morbido romanticismo (ma questo è Saramago),e con le tinte a contrasto ricorda certa pittura spagnola.
E ovviamente, il pubblico risponde caloroso.
‘Le intermittenze della morte’ di José Saramago – Regia Valentina Cognatti – Con Serena Borelli, Martina Grandin, Alessandro Moser – Margot Theatre Company – Teatrosophia dal 14 al 17 marzo 2024