Quando in sala si spengono le luci e i personaggi della commedia di Pinter s’affacciano in palcoscenico si avverte immediatamente un’atmosfera differente rispetto agli spettacoli teatrali che si vedono da qualche stagione, soprattutto nella capitale. La scena è impeccabile; le luci sono precise, nel dosaggio e nei puntamenti, e non formano ombre né sul palco né sui laterali; gli attori sono guidati perfettamente da una coscienziosa bussola che hanno fissata nella mente; le battute sono scandite perfettamente con la giusta intonazione corale, ogni parola conserva piena finanche la vocale finale; insomma tutto sembra calibrato dalla mano di un deus ex machina per «Il compleanno» di Harold Pinter, in scena alla Sala Umberto fino al 12 febbraio. Non solo, ma quel che più di ogni altra cosa salta all’occhio, è la sintonia e l’affiatamento di una squadra vincente di attori che regalano allo spettacolo una perfezione simile a quella di un ingranaggio d’orologio.
Merito del regista Peter Stein?
«Certamente. Però il merito di Peter non sta soltanto nel portare in scena un testo teatrale: lui è, sì, un magnifico realizzatore, ma è anche un maestro che s’impegna con tutti i suoi attori a trovare i perfetti equilibri, a trasmettere la passione di quel che si sta studiando e provando. Merito primario è quello di averci insegnato un metodo di lavoro straordinario. E merito è anche nostro che poniamo un’attenzione assoluta a ogni suo suggerimento, senza mai improvvisare. Dico realizzatore perché il suo primo impegno è il rispetto per l’autore. Ogni testo contiene già una sua regia, e Peter riesce a tirarla fuori dalle battute dei personaggi.»
È Maddalena Crippa che parla per tutta la compagnia, attrice e moglie del regista tedesco, da molti anni vive nella campagna umbra a San Pancrazio, podere che Peter Stein acquistò molti anni fa per creare, tra le altre attività, un’autentica fucina del teatro.
Quanto tempo è stato in prova questo spettacolo?
«Un mese e mezzo, lontano da ogni distrazione della vita cittadina (particolare non trascurabile), concentrati sul lavoro, e impegnati a conoscerci, tanto da far gruppo. Ma prima delle prove avevamo già analizzato il testo e imparato le battute a memoria. Peter Stein, prima di cominciare, aveva già fatto un seminario su Pinter e, grazie a quell’esperienza, la compagnia s’è arricchita di un prezioso elemento: Alessandro Sampaoli.»
A proposito di attori, al nostro appuntamento manca Alessandro Averone, la vera rivelazione dello spettacolo. Io lo ricordo ai suoi esordi nell’ultimo allestimento di «Metti, una sera a cena» all’Eliseo. Peccato che non ci sia!
«Alessandro è bravissimo. Ed è il vero protagonista dello spettacolo. La commedia ruota intorno al suo personaggio e a quello che interpreta Gianluigi Fogacci. Stavolta io ricopro un ruolo secondario, sono un elemento del gruppo. Un professionista come Averone meriterebbe maggior riconoscenza. Invece, purtroppo, viviamo in un’epoca dove il merito, soprattutto quello artistico, non ha più alcun valore. Questo fa rabbia ed è molto triste.»
Cos’è cambiato?
«La conoscenza del metodo di lavoro, prima di tutto. La nostra compagnia è rimasta l’unica in Italia a far teatro come fosse una dottrina. Oggi, quaranta giorni di prove non li fa più nessuno. E di questo dobbiamo ringraziare il produttore, Emilio Russo, che crede con fiducia nel nostro lavoro.»
I risultati si vedono: nel vostro allestimento ogni particolare fa parte di un equilibrio scenico impeccabile.
«Così si dovrebbe fare ogni volta. C’è sempre bisogno di un autore, di un regista e di bravi attori, oltre che di ottimi tecnici. E anche il tempo è un elemento fondamentale. Oggi, quasi sempre, oltre a far le cose troppo in fretta, l’autore e il regista sono la stessa persona, pronta a divenire una e trina quando costui interpreta pure un ruolo, o meglio, il ruolo. Ci si è dimenticati che il teatro è relazione.»
In che senso?
«In scena occorre stabilire una o più relazioni: i dialoghi lo impongono. Il teatro classico è scritto attraverso un dialogo che implica una serie di rapporti. In giro non si vedono che monologhi! Si prende un testo classico e lo si stupra, riducendolo a un raccontino per le proprie masturbazioni mentali. Un testo di Shakespeare è eterno perché non si finisce mai di approfondirlo perciò si chiama classico. Approfondire significa allargare gli orizzonti; dovrebbe essere vietato fare il lavoro contrario, cioè restringere un capolavoro a monologhetto che interessa soltanto al presunto autore. La verità, secondo me, è che ci hanno ridotto senza parole. La tecnologia, invece di aiutarci, ci ha reso miseri, senza più voce. Non abbiamo più voglia di parlare con qualcuno. Ci piace restare soli, chiusi in una stanza, e parliamo da soli: e così nascono le idee dei monologhi. Dov’è finito il teatro d’arte?»
Il teatro d’arte. Che bella definizione.
«Il teatro è arte e andrebbe difeso. Bisognerebbe proteggerlo. Occorrerebbe ristabilire i tempi di prova degli spettacoli, assicurarsi che i registi rispettino i testi, che gli attori si adoperassero per ampliare il loro bagaglio culturale.»
È un problema di cultura, quindi?
«È un problema di cultura sociale. È un problema che nasce a monte, là dove si governa un paese che è allo sbando. Chi è che difende adesso l’arte in Italia? Nessuno. Qualcuno, talvolta, si interessa al teatro soltanto quando diventa necessario per altro.»
Tipo?
«Quando è necessario far vedere che ci si occupa delle carceri; quando è necessario mostrare che ci si preoccupa dei disabili: soltanto in queste occasioni i nostri governanti si ricordano che esiste il teatro. Altrimenti dimenticano perfino la parola, abbandonando il teatro a gente che non sa, che non conosce, e che non è capace; e ognuno si fa il teatrino che vuole. Quindi ecco che spuntano i monologhi che non interessano, le scuole di recitazione che non servono a niente, gli spettacoli in cui la regia prevede che tutti corrano in scena nudi senza alcun senso…»
E il pubblico applaude?
«Certo. Perché oggi vince il “famolo strano”: una «Orestea» dove il coro si esibisce in un karaoke, dove il messaggero arriva dai sotterranei della pedana… dovrebbero istituire la polizia del teatro per evitare questi scempi. Non tollero questa violenza che sporca i testi teatrali che invece andrebbero protetti. Per salvare il salvabile dobbiamo trovare gente come Paolo Grassi che con Strehler creò il Piccolo a Milano, che quando incontrò Gaber intuì che fosse un genio ideatore di un nuovo genere teatrale. Invece, purtroppo, si prosegue con quest’atteggiamento cieco nei confronti del teatro. Che i politici non ne parlano, l’abbiamo detto. Ma perché da qualche anno anche i quotidiani lo ignorano? I giornalisti danno enorme spazio a notizie che riguardano potere ed economia: solo pagine tristi; non si accorgono che hanno tolto le pagine della felicità.»
Quindi il teatro è anche felicità?
«Il teatro arricchisce lo spirito, insegna qualcosa, fa capire cos’è la qualità nella vita. Sicuramente incrementa la preparazione culturale di ognuno, ma con un apprendimento sentimentale. È sempre la parola che agisce e trascina lo spettatore.»
Peter Stein è forse l’ultimo dei registi di una generazione che ormai si è estinta. Ci sono nuove leve a cui passare il testimone?
«Fabio Condemi, per esempio, è un ottimo regista. Giovane, intelligente e dalle intuizioni garbate e rispettose nei confronti degli autori.»
Come si potrà risollevare il teatro?
«Occorre risvegliare lo spettatore con l’arte della parola. Solo la parola potrà riconquistare la fiducia delle platee.»
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Il compleanno di Harold Pinter. Con Alessandro Averone, Maddalena Crippa, Gianluigi Fogacci, Fernando Maraghini, Alessandro Sampaoli, Emilia Scatigno. Regia di Peter Stein. Alla Sala Umberto di Roma fino al 12 febbraio.