Un suono metallico, come di lamiere percosse dal vento; è nel violento infrangersi del silenzio che ha inizio “Macbettu”, ad opera di Alessandro Serra.
In scena al Teatro Argentina fino allo scorso 5 Maggio , lo spettacolo si afferma come vivida rilettura dell’opera di William Shakespeare e ad essa si aggrappa e si discosta eleggendo il sardo barbagino come lingua d’espressione.
Un tonfo, una risata, poi l’eco di sghignazzi sinistri; al chiarore d’una luce fioca e opalescente osserviamo l’incedere di tre figure incappucciate.
Barone di Glamis! Barone di Cawdor! Le streghe preannunciano la loro profezia; nella piena penombra l’azione si sussegue guidata e interrotta da suoni viscerali, gemiti, guaiti profondi.
Se la scelta linguistica si pone come trasla il senso dell’opera mettendo in risalto il legame antropologico con una tradizione sarda ricca di simboli, ritualità, credenze; il cast di soli uomini si pone in perfetta assonanza con la tradizione del teatro elisabettiano: nella totale omissione di personaggi femminili, il regista dirige gli interpreti sulla scia d’un dinamismo grottesco che li porta a dimenarsi, curvarsi, rotolare in pose ferine, flessuose, solo lontanamente antropomorfe.
La scena è vuota, su di essa oggetti essenziali trasmutano la loro forma; dapprima pilastri, le tavole di ferro divengono tavoli, poi strumenti di suicidio.
Nel dialogo incessante tra umano e oggetto, si realizza il simbolo: l’uomo diviene bestia, un gesto corale e violento frammenta il pane carasau, simbolo di ossa e di morte fino a quando nel carosello delle streghe, s’invischiano riso e terrore.
Un ronzio di mosche, un capovolgersi di corpi, avanzano carnevaleschi i “mamuthones” alternando il gesto repentino ad una fissità glaciale e marmorea.
Esortando gli attori a “raccontare una storia senza parole” Serra opera una rarefazione dei dialoghi che, risuonando in quella lingua asciutta e violenta, arrivano a manifestarsi in tutta la loro pregnanza.
Vieni notte che sigilli le pupille degli occhi! Sul proscenio ricoperto di polvere, si abbassano i fari portatori di una luce sinistra, inattesa.
L’illuminazione artigianale, intermittente si arresta di nuovo; di nuovo l’oscurità terrosa invade il palco ormai pervaso da un nuovo silenzio.
Interpretata da Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, e Felice Montervino, l’opera vincitrice del Premio Ubu 2017, si presenta come acclamata rivisitazione capace di agire sullo spettatore come forza primordiale e materica, di imprimere significati rendendoli significanti universali per mezzo e al di là di una lingua che, assieme al gesto, ne è veicolo.