L’UOMO NELLA MACCHINA DA PRESA: La recensione

Due uomini, due sguardi rivolti al grande schermo; nutriti da diverse suggestioni, i loro occhi si predispongono allo scorrere delle immagini: se per il più anziano l’opera è il risultato di un efficace restauro, questa assume per il secondo un significato altro, spazio irriducibile entro cui addentrarsi fino ad esserne permeato del tutto.

Presentato in anteprima nazionale al 37° Fantafestival, “L’uomo nella macchina da presa” di Michele De Angelis non si pone solo come diretto omaggio a Dziga Vertov (“L’uomo con la macchina da presa”), che nel 1929 si faceva teorico di un’immagine filmica fatalmente interconnessa all’umana percezione della realtà, ma ne esacerba ulteriormente i termini

Coinvolto nel restauro digitale di antichi fotogrammi, Marcello permette al suo lavoro di assorbirlo a tal punto da rendere sempre più labile il limite fra vita reale e proiezione filmica; i due piani si intersecano, tendono a sovrapporsi così come le figure che li popolano, fino a risultare del tutto inscindibili.

Ma ecco subentrare un’indefinita presenza, abitante trasversale di tutte le vecchie pellicole, l’uomo con la bombetta vi compare trasversalmente rivolgendo al protagonista uno sguardo beffardo: dapprima scambiato per allucinazione, l’ambiguo personaggio s’insinua nell’inquadratura de “Il vecchio ferroviere”, in quella di “Boccaccio 70”, per poi salutare l’obiettivo dalla scena iniziale di “Zombie: down of the death”.

Nel repentino deformarsi della realtà quotidiana, assistiamo alla progressiva aderenza tra occhio umano e “cineocchio”: cosi come l’immagine della pellicola agisce sulla percezione del protagonista, essa ne invade l’universo onirico, ne motiva l’esistenza fino ad impadronirsi del suo stesso corpo.

Snodo cruciale dell’intero mediometraggio, l’inseguimento tra Marcello (Maurizio Merli) e il suo doppio (Paolo Triestino) è apice di una tensione crescente, derivante dal ribaltamento di ruoli e reso ancor più evidente dallo scambio di abiti tra inseguito e inseguitore.

E’ nella solitudine di una stra-ordinaria visione, quella di “La frusta e l’incubo” di Santo Vizzini, primo film gotico italiano della storia del cinema, che il protagonista/antagonista prenderà atto di un’osmosi drammatica, quella che lo vede inesorabilmente congiunto all’oggetto dei suoi terrori.

Affermandosi come riflessione meta-drammatica sul sistema di riproduzione audiovisivo, l’opera è arricchita dalla vibrazione di una suspense persistente resa ancor più vivida dall’interpretazione di Maurizio Merli, Paolo Triestino, Sophia Kiriakidou e Roberta Krolle; dalla partecipazione di Pier Luigi Ferrero, Federico Bava e, per la prima volta sullo schermo, Aurora De Angelis, Adele Perrucchi, Virgina Andrea Sandoli, Francesco Patrocco ed Elia Pistis.